Nel panorama satirico contemporaneo, sempre più affollato da prodotti che mirano a smascherare le contraddizioni del sistema hollywoodiano, The Studio continua a distinguersi per la sua capacità di svelare i meccanismi interni al mondo dello spettacolo senza mai rinunciare alla dimensione della commedia.
Il terzo episodio, “The Note”, si inserisce in questo solco con una struttura narrativa più lineare rispetto alle due puntate precedenti, ma che riesce comunque a mantenere inalterata quella tensione comica basata sul disagio, sull’equivoco e sulla continua inversione dei ruoli di potere.
IL BEATO RON HOWARD
Il cuore tematico dell’episodio è il concetto di “nota”, inteso nel gergo della produzione cinematografica come suggerimento o indicazione che i dirigenti di uno studio forniscono agli autori di un film. Tuttavia, in questo contesto, la nota assume una valenza quasi sacrilega: si tratta infatti di comunicare a Ron Howard, emblema vivente del regista benvoluto, premiato e universalmente stimato, che la sequenza finale del suo nuovo film, un interminabile segmento di quarantacinque minuti ambientato in un motel, deve essere tagliata. Il conflitto non è tanto tra creatività e mercato, quanto tra l’immagine pubblica di un autore e la vulnerabilità che si cela dietro quella maschera. È su questo crinale che si muove l’intero episodio, offrendo una riflessione implicita ma penetrante sul rapporto tra autorità creativa e sudditanza affettiva.
Il film in questione, “Alphabet City“, viene inizialmente presentato come un capolavoro neo-noir, un esercizio stilistico pressoché perfetto fino al punto di rottura costituito proprio dalla sequenza contestata. La puntata gioca sul paradosso: l’eccellenza formale viene sabotata dall’eccesso di introspezione, dalla tentazione di indulgere nel personale. In questo senso, la serie riesce ancora una volta a rappresentare la macchina cinematografica come un dispositivo in cui ogni istanza narrativa è costantemente negoziata, diluita, ridimensionata, e la satira non risparmia nessuno, nemmeno i registi più amati.
Il ritorno in scena di un altro regista reale, dopo l’apparizione di Martin Scorsese nella première, conferma la formula vincente della serie: utilizzare figure iconiche del cinema per metterne in discussione, con grande intelligenza comica, i tratti distintivi così come sono percepiti dal grande pubblico. Se Scorsese era stato associato a un’idea quasi sacrale di integrità artistica, Ron Howard rappresenta invece “il bravo ragazzo di Hollywood”, un uomo gentile, accessibile, quasi paterno. La scrittura dell’episodio sfrutta abilmente questa immagine pubblica, costruendo una tensione crescente attorno all’impossibilità, da parte di Matt e del suo team, di deludere un uomo così buono senza sentirsi moralmente inadeguati.
IMBARAZZO E MENZOGNE
La comicità, come già nelle puntate precedenti, scaturisce da un’escalation di situazioni grottesche, e trova il suo apice nell’idea di incaricare Sal — interpretato con perfetto tempismo comico da Ike Barinholtz — di fingere un lutto personale per convincere Howard a tagliare la sequenza, basata a sua volta su un lutto autentico vissuto dal regista. Il gioco di specchi tra realtà e finzione, tra dolore vero e dolore simulato, produce una tensione grottesca che sfiora il tragicomico, offrendo allo spettatore un’esperienza di visione tanto disturbante quanto divertente. In questo frangente, la performance di Barinholtz risulta centrale: il suo Sal è il depositario di una commedia fisica e nervosa che funziona perfettamente quando messa in contrasto con la compostezza emotiva di Ron Howard.
Anche Chase Sui Wonders, nei panni di Quinn Hackett, trova finalmente lo spazio per una performance più articolata. Fino ad ora, il suo personaggio era rimasto un po’ ai margini, ma in “The Note” emerge in una dinamica più centrale: è lei l’unica a mostrarsi disposta a comunicare la nota in faccia al regista, salvo poi ritrarsi completamente nel momento in cui scopre che alla riunione parteciperà anche Anthony Mackie, l’attore protagonista del film e sua celebrità del cuore. Il momento di imbarazzo totale che ne deriva è tanto prevedibile quanto ben eseguito, soprattutto grazie alla chimica tra Wonders e Mackie. Quest’ultimo, in particolare, chiamato a interpretare una versione comicamente amplificata di se stesso, mostra una disinvoltura notevole, e francamente inaspettata, nell’equilibrio tra metacommedia e umorismo situazionale.
L’episodio trova il suo culmine comico in un colpo di scena efficace e ben calibrato: Mackie odia la sequenza del motel quanto lo studio, ma non ha mai avuto il coraggio di dirlo a Howard. In questa rivelazione si nasconde un’ulteriore riflessione sul sistema gerarchico del cinema, in cui tutti fingono deferenza mentre coltivano dissenso. Nessuno ha il coraggio di offendere il re, anche quando il re ha perso lucidità.
META-METANARRAZIONE
Sul piano visivo, The Studio si conferma una serie che rifiuta la staticità e osa più della media delle comedy televisive. Pur non raggiungendo i virtuosismi registici dell’episodio precedente — incentrato su un piano sequenza unico — “The Note” riesce comunque a distinguersi per alcuni accorgimenti estetici mirati. Emblematica è la scena in cui Matt e Patty camminano lungo il backlot mentre alle loro spalle una troupe testa una macchina della neve. Il contrasto tra la neve finta e il sole californiano produce un effetto straniante che serve da perfetta metafora del mondo illusorio che la serie vuole rappresentare. È proprio in questi dettagli che la regia dimostra una cura visiva difficile da trovare in altre serie comedy attualmente in circolazione: l’inserimento di elementi incongrui, volutamente artificiali, rafforza così il messaggio meta-narrativo secondo cui ogni immagine è costruita e ogni emozione mediata.
L’ultima scena, che riproduce fedelmente la famigerata sequenza del motel con Matt al posto del protagonista, chiude l’episodio con un gesto autoironico di grande efficacia. La serie prende in giro la sua stessa critica, mostrando come anche l’inutile possa essere oggetto di imitazione affettuosa. In un mondo dove ogni opinione è una potenziale “nota”, The Studio si interroga su chi abbia davvero il diritto di giudicare e su quanto peso possa avere, ancora oggi, la voce di un dirigente in una stanza di scrittura.
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Con “The Note”, The Studio conferma la sua capacità di unire satira e commedia attraverso una scrittura brillante e un uso intelligente delle figure pubbliche coinvolte. L’episodio riesce a trasformare un semplice suggerimento creativo in una crisi esistenziale collettiva, smascherando con ironia i meccanismi di sudditanza affettiva e deferenza che regolano Hollywood. Se da un lato la costruzione narrativa si mostra meno stratificata rispetto agli episodi precedenti, dall’altro il suo sviluppo lineare permette una maggiore coesione interna, esaltata da scelte visive sempre mirate e funzionali. La serie continua così a mantenere alta la qualità del suo racconto, dimostrando di saper maneggiare la critica all’industria senza mai perdere la leggerezza e la capacità di intrattenere.
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.