“A me piacciono le donne con le poppe grosse, tipo ape regina”
“Secondo me tu appartieni alla stirpe dei belli e dannati dall’aria efebica, la tua carriera luciferina scorre lungo un precipizio sul quale si sono infrante le follie di tanti grandi del passato”
“Bisogna stemperare i propri istinti, seguendo dei binari canonici”
“Mantenersi sul precipizio è l’unico metodo per un artista per restare vivo”
“Io so solo che essere artisti è una parola relativa, meglio stare con i piedi per terra. Avrei voglia di scopare, chi è disponibile?”
Sebbene The Lady possa apparire come un’opera priva di veri e propri accadimenti fattuali, in cui il nomadismo narrativo regna sovrano e ogni avvenimento sembra essere staccato dalla moltitudine di eventi che lo hanno preceduto, in realtà è proprio così è possibile scorgere un elemento di continuità leggendo tra le righe di questa “fiction affresco”, che prepotentemente ha deciso di arrogarsi il difficile compito di mettere in mostra il contesto socioculturale odierno in tutte le sue sfaccettature.
In particolare, è il tema della sessualità a tessere un primo e rappresentativo fil rouge nell’intricato intreccio narrativo ordito dalla Del Santo: sessualità come mezzo necessario per la liberazione da un presente deludente a cui si sente di non appartenere (“Io voglio essere notata, avere i fari puntati, l’occhio di bue costante“); sessualità come scorciatoia per il raggiungimento dei propri bisogni materiali (“Sei la mia lampada di Aladino“, “Buona idea, ma domani vorrei andare a fare un giro in Ferrari“); sessualità come unica possibilità di mostrarsi agli occhi di un mondo, quello dello showbiz, dominato da assurdi canoni estetici contro i quali le ragazze cosiddette “normali” non possono nulla, annichilite dinnanzi a bellezze da copertina circondate da un alone di illusoria perfezione (“Quando ci sono tutte queste modelle i ragazzi non ci guardano più“, “Sono grotteschi, sbavano dietro a ciò che non possono avere“).
The Lady sviscera tutta una serie di caratteristiche inedite per una serie televisiva, traghettando l’opera delsantiana in un territorio del tutto inesplorato. Lo stile inconfondibile, adattato ad un minutaggio volutamente contenuto, ruota attorno alla figura dell’antitesi, mostrando allo spettatore modelli e registri stilistici diametralmente opposti, accostati di frequente per suscitare un effetto straniante. Una palese dimostrazione di quanto detto è riscontrabile nel dialogo proposto a inizio recensione, orientato inizialmente alla disamina della figura efebica, per poi terminare in caciara esaurendosi in un capatondiano “Scopare!“.
Il realismo messo in scena dalla Del Santo non è di matrice documentaristica, ancor meno sociologica o antropologica: in The Lady non ci si limita a “mostrare” le cose o a esaminarle, bensì l’obiettivo è quello di esporle attraverso la loro connotazione epifanica. Così facendo, questa dimensione quasi ieratica della fiction si muove in due direzioni ben marcate: da un lato abbiamo la trasfigurazione del mondo dello show business, i cui protagonisti si elevano a personaggi simbolici investiti di un’aura sacrale, i quali ascendono al ruolo di martiri, ultimi esemplari di una società mitica; dall’altro lato, invece, questo aspetto sacrale si nasconde nella scelta preponderata di mostrare l’altra faccia della medaglia, spostando l’attenzione sulla supremazia dell’immagine e l’elaborazione del personaggio in continua crisi.
L’immagine filmica diventa un faro nel buio per lo spettatore, spesso in difficoltà nel comprendere il senso dell’opera che ha di fronte, frutto di una totale disomogeneità dal punto di vista narrativo-temporale. L’analisi da parte dell’occhio viene così depauperata della sua componente guidistica, lasciando spazio ad un’esplorazione progressiva e dinamica del territorio da parte del corpo; la macchina da presa si libera, offrendo nuove possibilità di esplorazione diegetica (si pensi, ad esempio, a tette e culi) e suscitando nello spettatore un vero e proprio bagno di sensazioni (si pensi, ad esempio, alle poderose erezioni causate dai suddetti tette e culi).
La risultante di tutte queste componenti filmiche è una serialità “diversa” (il termine che meglio descrive l’opera della Del Santo e tutti i componenti del suo improbabile cast), che acquisisce il significato di una continua ed inesauribile ricerca nella quotidianità. Quotidianità che imprigiona i suoi personaggi, costretti ad affrontare la fallace non significanza dell’esistenza, schiacciati da una soffocante cappa di incomunicabilità. Insomma, un po’ come un sordocieco coreano che guarda un film di propaganda sovietica sottotitolato in cecoslovacco.
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.