Nel 1953, in una fase di transizione tra l’esperienza del cosiddetto neorealismo e l’avvento di quella che sarebbe passata alla cronaca come l’età dell’oro del cinema italiano, un gruppo di registi, tra cui i più noti Federico Fellini, Dino Risi e Michelangelo Antonioni, tutti guidati da un progetto del celebre sceneggiatore/autore Cesare Zavattini, girava il film “L’amore in città”. La pellicola, di sei episodi, aveva come obiettivo, in pieno spirito di quegli anni, di documentare la realtà e il costume sociale del nostro paese, chiamando per esempio attori non professionisti a portare sullo schermo la propria vita di tutti i giorni. A tal proposito, tra gli altri, il segmento che forse più si avvicina al “documentario”, per come lo intendiamo oggi, è quello ad opera di Alberto Lattuada, che nel suo “Gli italiani si voltano”, in una sorta di candid camera, riprendeva per le strade di Roma la reazione degli uomini al passaggio di belle donne.
Ebbene, a distanza di più di sessant’anni, l’utopia zavattiniana, giudicata a posteriori perlopiù fallimentare, del neorealismo, trova finalmente il suo degno erede nella visione spietata e cinica della Lory Del Santo nazionale. Partendo dalla scarna messa in scena e dall’uso di attori non professionisti, sono infatti tanti gli elementi palesi di rimandi tecnici e poetici della regista di Povegliano Veronese, al celebrato e mai dimenticato cinema di De Sica e Rossellini. Testimonianza massima di ciò, naturalmente, il brillante finale di questo “Episodio Otto”, sbattuto quasi in faccia allo spettatore con un’insolenza disarmante. Il documentaristico viaggio nella città perduta, a metà tra le metropolitane “inchieste” di Lucignolo e lo stile satirico del format “We Can Dance” (se qualcuno di voi avesse mai avuto la (s)fortuna di incapparci, nello zapping notturno tra i meandri delle tv locali), rivela così l’intento realistico dell’autrice, denotando al tempo stesso la sua contraddizione interna. L’accusa più frequente ai neoralismi, infatti, era proprio quella di essere eccessivamente manieristici nel riportare la realtà del tempo, tanto da renderla pura “finzione”. La ricostruzione degli scenari discotecari, quindi, rendono la ricerca artistica della Del Santo come quella degli inglesi del Free Cinema o dei francesi della Nouvelle Va… no, ok, così forse è troppo anche per noi.
Non solo (mal)costume nazionale, però, visto che The Lady si prende anche coraggiosamente la briga di intraprendere la strada di una velata denuncia sociale, ennesima dimostrazione di come in questa stagione, ancor più che nella prima, la finzione narrativa sia solo un pretesto per raccontarci l’Italia di oggi, come si diceva poc’anzi. E nel nostro paese, ovviamente, non esiste solo l’abbagliante quanto lasciva vita mondana o la ricerca sfrenata della notorietà individuale, ma anche quel fenomeno chiamato immigrazione, che affligge le preoccupazioni di una così alta percentuale della popolazione italiota. Argomento più attuale che mai, la Del Santo, sapientemente, sceglie di affrontarlo tramite uno dei propri personaggi di punta, forse quello più eroico e che perciò può essere assunto più facilmente come modello positivo dai più giovani. E’ così che Chang, il quale fino ad oggi, nel suo richiamare chiaramente il fumettistico Alfred di Bruce Wayne, si limitava solo a recitare la parte del leale scudiero dall’accento esotico della protagonista (ovviamente solo per nascondere la sua vera natura), si svela ai nostri occhi come un padre amorevole e sensibile alla richiesta d’aiuto, prontamente accolta, del figlio Chung. L’apparente superficialità nella scelta del nome della progenie e la pochezza stilistica della scena, serve solo a suggerire, infine, il chiaro messaggio della Del Santo: Chung, non a caso tenuto nascosto fino ad ora, non appare mai con le sue fisiche sembianze, ma solo mediante una voce lontana, quasi spettrale, come se non fosse mai esistito. Perfetta rappresentazione metaforica, insomma, delle difficili condizioni di vita di coloro che vivono ai margini della società e che, colpevolmente, tanto ci piace ignorare.
Eppure, ricordiamocelo, il bersaglio principale delle stoccate brucianti della regista è ben altro, quello che già Sorrentino ne “La Grande Bellezza” ha provato similmente a mettere a nudo. Esattamente come Jep Gambardella, la “modella in reggiseno” è l’anti-eroina post-moderna che ha scelto di abbracciare il mondo vuoto e spietato che domina il Bel Paese. Un mondo in cui solo (s)vestirsi in una certa maniera può portarti ad essere accettato (vedi Lona, di puntata in puntata sempre più succinta), e dal quale però adesso viene tagliata fuori, probabilmente proprio a causa della volgarità latente che così forzatamente le richiedevano. Vittima delle contraddizioni ipocrite della società, lei però non ci sta, come si evince dal duro e avvincente dialogo col bigotto che disapprova il suo topless in terrazza, pregno di significato e carico di rabbia, nonché ottimamente reso dalle voci che doppiano entrambi. Lei sceglie di spogliarsi, quindi, anche degli ultimi indumenti rimastele, sancendo la definitiva emancipazione da quell’ambiente corrotto che ha a lungo inseguito… oppure ci stava davvero solo provando col tipo, chi lo sa.
In preparazione della conclusione di stagione, intanto, la Del Santo rimescola le carte anche narrativamente, non solo nei contenuti quindi, sfoggiando succosi e memorabili plot twist. Innanzitutto, va registrato il grande e atteso (dai, un po’ da tutto il pubblico maschile, ammettiamolo) ritorno di Natalia Bush. Nel modus operandi di qualsiasi grande show che si rispetti, infatti, i personaggi che d’un tratto scompaiono, non sono mai davvero scomparsi del tutto. L’ex concorrente de La Talpa ritorna, presumibilmente, a dar man forte alla vecchia amica Lona, visto che la resa dei conti con Zora si fa sempre più vicina (nonché sempre più unilaterale). Anche se, a tal proposito, non escludiamo che forse, data la ricchezza del segmento che la vede protagonista, la Bush passasse lì per caso, e la regista non abbia resistito nel farci ri-saggiare la portata del suo talento, non lasciandosi così scoraggiare dal tempo limitato, ma regalandoci la solita performance indimenticabile.
La disputa con Zora, dicevamo, fino ad ora relegata al solo covo dei Black Angels (luogo sì di promesse di cieca vendetta e di digressioni esistenziali da parte dei suoi variegati frequentatori, ma, come scopriamo, solo apparentemente prive di concretezza), entra finalmente nel vivo, e lo fa in un modo che sfideremmo chiunque ad averlo anche solo sospettato (anche se, certo, in mancanza di partecipanti, ci basterebbe premiare il coraggioso che ha speso più di qualche secondo a rimuginarci sopra). Come i più grandi autori di gialli, la Del Santo non ha fatto altro che utilizzare il personaggio di Manuel, meglio conosciuto come sponsor ufficiale della lotta all’alcolismo, nella veste di specchio per le allodole, facendogli recitare la parte di unico esecutore della diabolica villain, ripropostoci però adesso all’apice della propria autodistruzione dopo l’ignobile tradimento. Ed è per questo che lo svelamento del compagno di bevute di Guendalina del GF dedito alla filosofia, come mandante in incognito di Zora, si scopre a dir poco magistrale, al confronto del quale annichilirebbe persino la figura del mafioso Elias nella prima stagione di Person of Interest. La cieca vendetta diventa così una studiata quanto raffinata manovra di spionaggio, che colora di acceso vigore l’attesa per i prossimi episodi finali.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.