Arrivati a questo tredicesimo ed ultimo episodio di Marvel’s Luke Cage, arriva anche il tempo per tirare un poco le somme della stagione stessa sul paladino di Harlem. Tale resoconto sarà anche facilitato dalla condotta della puntata, la quale rispecchia in tutto e per tutto l’andazzo della serie.
Il serial comics solitario su “Power Man” ha dimostrato, nel corso della sua dozzina di episodi, di essere molto più portato per la caratterizzazione di ogni singolo personaggio, dove lo showrunner Cheo Hodari Coker ha intrecciato attorno ad ognuno delle tematiche portanti per cui ogni singolo personaggio si fa portavoce. Tante sono le morali che si possono trarre da questa serie, dai black on black murders, all’eccessiva violenza della polizia, all’importanza della tradizione e dell’eredità, ma soprattutto il rapporto che si crea con il rispetto e il potere, come si vive con essi e come questi si evolvono con in mano “le chiavi del regno”. Se ci si ferma ad osservare le scrittura dei singoli protagonisti, anche quelli più insulsi o apparentemente privi di spessore come Zip, lo spettatore si rende presto conto che i personaggi del terzo serial Marvel/Netflix sono come dei quadri, il cui senso e bellezza si può trovare solo dopo averli osservati per un po’ e non dopo una fugace occhiata. Qui poi, in questo season finale, praticamente tutti gli interpreti concludono la loro fase di rodaggio, le loro origini, per andare incontro a quello che sono veramente.
In “You Know My Steez”, per esempio, il fu-Carl Lucas esce fuori dall’esperienza della prima stagione come un mash-up tra Capitan America e Superman, contemporaneamente personalità di spicco e simbolo di speranza di e per Harlem. Le analogie tra Cage-Cap-Supes sono infatti piuttosto marcate e forse anche volutamente riconoscibili, a partire della felpa col cappuccio crivellata di colpi, indumento che funge come bandiera di una piccola città-quartiere (come le stelle e strisce del Capitano) e un simbolo che richiama una precisa attitudine alla vita. In questo caso, essere a prova di proiettile, nel senso che possono anche esserci delle ferite, ma Harlem non cederà mai a persone come Cottonmouth e Mariah Dillard, i quali vedono Harlem come una risorsa, un bene materiale che è stato loro lasciato in travagliata eredità: proprio come la S dell’Azzurrone, che significa “speranza” nella sua lingua. E abbiamo citato solo il protagonista per non addentrarci in un discorso che trasformerebbe questa recensione in una tesi universitaria sul metodo di caratterizzazione, anche se è davvero un peccato non poter parlare proprio di tutti.
Il problema? Il problema è che, incentivando fin troppo enormemente la caratterizzazione, va a finire che la storia ne risente e torna a farsi sentire una problematica evidenziata in “DWYCK”: la mancanza di un giusto bilanciamento tra tematiche sociopolitiche e svolte più supereroistiche, cosa che inizialmente si scusava ma che con il tempo non ha fatto molto altro per trovare un giusto bilanciamento, ritardando di molto anche il decollo della serie. Facciamo qualche esempio concreto prendendo qualche sequenza del finale di stagione.
La lotta tra “Power Man” e Diamondback avrebbe dovuto essere il raggiungimento ultimo di un climax, l’ultima sfida tra due personaggi che hanno provato l’uno verso l’altro forti risentimenti; insomma, il resoconto nonché esplosivo risultato di un continuo punzecchiarsi per tutta la stagione. La soddisfazione che si prova in tale climax raggiunto si prova in parte, dato che le botte da orbi rendono onore a questa definizione solo in certi momenti. La battaglia non prosegue con convinzione e determinazione soprattutto dalla parte del protagonista che, come nelle altre sequenze della storia di questa stagione, passa il suo tempo a vivere gli eventi in maniera passiva. Ok che tutto deve essere in linea con il mood con cui Luke Cage si approccia, cioè come uomo d’acciaio fuori e insicuro dentro, ma fin troppe volte viene da chiedersi se ci è o ci fa. Alla fine qualche soddisfazione arriva nella lotta, ma si avverte comunque l’impressione che sarebbe potuta essere coreografata meglio, nonostante le varie citazioni annesse della schermaglia a partire dal costume del villain. E’ un po’ paradossale riuscire a coreografare meglio scontri che richiedono più budget ed impegno, come quelle di Marvel’s Daredevil, e fallire in quelle che richiedo giusto il minimo sindacale e un po’ più di sacrificio nella scenografia.
Ancora più paradossale è il fatto che la conclusione della faida tra Luke Cage e Willis Stryker passi alla fine in secondo piano rispetto alla risoluzione amara del caso Cottonmouth. E’ vero che Coker ha sempre dato più importanza ad altre tematiche e stilemi narrativi, ma nello svolgimento delle due sequenze viene quasi da pensare che lo showrunner abbia voluto archiviare in fretta e furia la lotta tra i due fratellastri, solo per passare in pompa magna al risvolto noir dell’omicidio di Cornell Stokes. I pregi che escono dalla conclusione disfattista del caso sono due. Il primo, è proprio per il suo non-happy ending, il quale permette di formare ulteriormente il personaggio di Black Mariah e non archiviarlo completamente, seguendo la strada già intrapresa da Marvel’s Daredevil nel creare una galleria di nemici ampia e variegata disposta a tornare in più occasioni. Il secondo, è che il cliffhanger del protagonista della serie in carcere fornisce agli spettatori un motivo per poter continuare la visione della serie, oltre che mettere un po’ di pepe sulla formazione dei Difensori: con Cage in carcere, come faranno Devil e soci? Il difetto è che il tutto è eccessivamente tirato per le lunghe, quando quest’ultima sequenza avrebbe potuto risolversi in tempi contenuti: non diciamo più sbrigativi, solo meno accomodanti: proprio come l’intera stagione. Qualcuno può anche vederci, nella lentezza dei momenti che anticipano il nuovo arresto di Luke Cage per i “crimini” del suo passato come Carl Lucas, una citazione a “La 25° Ora”, ma anche la citazione a volte dice “s’è fatta ‘na certa”.
Tutti questi problemi sono dati dal fatto che si è sentiti i dovere di allungare il brodo in vista dei 13 episodi richiesti dal formato Netflix. Alcuni difetti, di fatto, si avvertono perché la prima stagione di Marvel’s Luke Cage è composta da una dozzina di episodi, quando in realtà ne sarebbero serviti molto meno per l’intero sviluppo della trama.
- Nella scena finale che inquadra Claire Temple, “l’Infermiera di Notte” strappa un bigliettino da un foglio appeso su un lampione di una scuola che da lezioni di arti marziali. Quel corso è gestito da Colleen Wing, futura comprimaria di Iron Fist nel suo omonimo telefilm.
- Discendente da una lunga dinastia di samurai, Colleen Wing è un’esperta praticante di arti marziali ed un’investigatrice privata partner di Misty Knight. Viene mandata in Giappone dopo che un malvivente uccide sua madre e, su richiesta del padre, viene presa in custodia dal nonno materno, l’ex-capo dei servizi segreti giapponesi Kenji Ozawa, che la cresce sui monti dell’isola di Honshū insegnandole le pratiche di arti marziali e combattimento con la katana tramandate da generazioni nella sua famiglia. Tornata a New York per far visita al padre, la giovane conosce e collabora con Iron Fist decidendo poi di stabilirsi nella città ma, qualche tempo dopo, si trova nel mezzo di una guerra tra bande nell’Upper West Side e viene salvata da Misty Knight, un’agente del NYPD che diviene la sua migliore amica e con cui, dopo che essa si dimette dalla polizia per via dell’amputazione del braccio destro (sostituito con uno bionico), fonda un’agenzia investigativa privata: la Knightwing Restorations, venendo soprannominate, per il loro talento nelle arti marziali, “Le Figlie del Drago”. Prima comparsa: Marvel Premiere #19 del 1974.
- Il costume di Diamondback è preso direttamente dal fumetto.
- Il villain poi è preso sotto le cure di Noah Burstein. È forse un indizio al fatto che otterrà i poteri di Coldfire, come ne parlammo nella trivia dell’episodio 10?
- Il modo il cui è vestita Misty Knight alla fine dell’episodio richiama il suo originale outfit nei fumetti.
THUMBS UP
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THUMBS DOWN
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Marvel’s Luke Cage si è dimostrato abbastanza impacciato nel gestire elementi più supereroistici che, comunque, servivano per lo sviluppo del serial in vista anche del già citato piano Difensori. Sotto questo aspetto ha avuto i suoi momenti di gloria, come essere il primo dei prodotti Marvel/Netflix a gettare le basi per una trama del telefilm di gruppo, oppure sempre con la citazione del costume di Diamondback (mai ci si sarebbe aspettato di vederlo, vista la sua tipica natura anni ’70). Però non c’è paragone tra l’importanza data da Coker a tematiche più black con altre più da fumetto.
Il telefilm di “Power Man” va comunque premiato per aver deciso di giocarsela diversamente da tutto il resto ma va riconosciuto che sono i personaggi la vera forza della storia, non la storia in sé. Il punto è che la storia passa così in secondo piano e quello che rimane allo spettatore è davvero poco.
ND milioni – ND rating
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You Know My Steez 1×13
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ND milioni – ND rating
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