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Sembra ieri, eppure sono già passati quattro anni da “Descenso“, episodio pilota di una serie che, volenti o nolenti, ha finito col rivoluzionare radicalmente il biopic televisivo e che, tra polemiche quali l’apologia del narcotraffico e l’idealizzazione di figure eticamente molto discutibili, ha aperto la strada ad un nuovo modo di rappresentare sul piccolo schermo vicende tratte da fatti reali. Giunta al suo quarto anno di vita, dunque, Narcos cambia location, cambia signore della droga, ma non lo stile che da sempre la contraddistingue. Notiamo fin da subito l’intenzione di rinnovare un brand che, prevedibilmente, ha subito un brusco calo dopo la dipartita del suo primo protagonista, al centro delle stagioni ovviamente più interessanti del telefilm. A prescindere dall’impeccabile interpretazione di Wagner Moura, possiamo certamente affermare che una rappresentazione cinematografica o televisiva con protagonista Pablo Escobar avrà sempre presa sul pubblico, questo perché attorno al personaggio aleggia un’aura quasi mitologica; la questione quindi, terminata l’epopea del re del narcotraffico, così come quella del Cartello di Cali, riguardava non tanto come proseguire la serie – gli autori hanno sempre avuto le idee abbastanza chiare sugli sviluppi futuri di Narcos, chiamata così proprio per permettere alla serie di narrare le vicende di diversi signori della droga secondo un approccio prettamente antologico – ma come fare per conferire ai nuovi protagonisti il carisma necessario per portare avanti in modo dignitoso la tradizione inaugurata dal già citato “Descenso”.
Trovandoci soltanto al secondo episodio è ancora difficile, se non impossibile, dare un giudizio o anche soltanto provare ad azzardarne uno in merito a questo reboot in salsa messicana; quello che però appare chiaro fin dalle primissime battute è l’intenzione da parte degli autori di puntare su una maggiore originalità, su un più vivido realismo, dando più spazio alla lingua messicana – fregandosene bellamente di accattivarsi il pubblico americano in virtù di una ricostruzione storico-televisiva più accurata – e ad interpreti della stessa etnia dei protagonisti (quelli veri) delle vicende (cosa che invece non fu per Pablo Escobar, interpretato appunto dal brasiliano Wagner Moura).
Ciò che è avvenuto in Messico nei primi anni ’80 rappresenta la scintilla da cui poi ha avuto inizio la sanguinosa guerra al narcotraffico mostrata nelle precedenti stagioni della serie e, non a caso, la presenza delle forze dell’ordine si avverte maggiormente in questa stagione, costretta a ricorrere a mezzi drastici ed estremi per soffocare i traffici illegali alla radice. Gli stessi protagonisti, due facce della stessa medaglia, traggono gran parte del proprio potenziale narrativo proprio dal loro legame con la giustizia, oltre a risultare enormemente vicini in termini di caratterizzazione nonostante i percorsi di vita diametralmente opposti. Ad unirli abbiamo la determinazione, di costruire un impero da una parte e di acciuffare i cattivoni dall’altra, ma soprattutto il desiderio di sentirsi legittimati, approvati, di mostrare al mondo il proprio valore, le proprie potenzialità. Insomma, la classica progressione in stile Scarface, che inevitabilmente culminerà con la brusca e sanguinosa caduta del nuovo re, ma con l’aggiunta di questo interessantissimo parallelismo tra i due protagonisti principali, uno degli elementi che contribuisce maggiormente allo svecchiamento di un brand che altrimenti finirebbe schiacciato dal peso degli anni e della reiterazione delle medesime dinamiche.
Prendendosi le consuete libertà, dovute ad esigenze di tipo televisivo, la serie mostra fin da subito l’intenzione di voler romanzare le vicende – forse in maniera ancora più evidente rispetto alle precedenti stagioni – comprimendo quelli che, verosimilmente, rappresentano anni e anni di indagini e operazioni, in un formato conforme al genere thriller d’inchiesta, allo scopo di bilanciare la noia delle suddette investigazioni utilizzando la regola delle tre S: soldi, sangue e sesso. Il risultato è un racconto molto ben bilanciato, ancora lontano dal suo centro narrativo, ma fin da subito costruito per attrarre a sé l’attenzione dello spettatore più esigente.
Trovandoci soltanto al secondo episodio è ancora difficile, se non impossibile, dare un giudizio o anche soltanto provare ad azzardarne uno in merito a questo reboot in salsa messicana; quello che però appare chiaro fin dalle primissime battute è l’intenzione da parte degli autori di puntare su una maggiore originalità, su un più vivido realismo, dando più spazio alla lingua messicana – fregandosene bellamente di accattivarsi il pubblico americano in virtù di una ricostruzione storico-televisiva più accurata – e ad interpreti della stessa etnia dei protagonisti (quelli veri) delle vicende (cosa che invece non fu per Pablo Escobar, interpretato appunto dal brasiliano Wagner Moura).
Ciò che è avvenuto in Messico nei primi anni ’80 rappresenta la scintilla da cui poi ha avuto inizio la sanguinosa guerra al narcotraffico mostrata nelle precedenti stagioni della serie e, non a caso, la presenza delle forze dell’ordine si avverte maggiormente in questa stagione, costretta a ricorrere a mezzi drastici ed estremi per soffocare i traffici illegali alla radice. Gli stessi protagonisti, due facce della stessa medaglia, traggono gran parte del proprio potenziale narrativo proprio dal loro legame con la giustizia, oltre a risultare enormemente vicini in termini di caratterizzazione nonostante i percorsi di vita diametralmente opposti. Ad unirli abbiamo la determinazione, di costruire un impero da una parte e di acciuffare i cattivoni dall’altra, ma soprattutto il desiderio di sentirsi legittimati, approvati, di mostrare al mondo il proprio valore, le proprie potenzialità. Insomma, la classica progressione in stile Scarface, che inevitabilmente culminerà con la brusca e sanguinosa caduta del nuovo re, ma con l’aggiunta di questo interessantissimo parallelismo tra i due protagonisti principali, uno degli elementi che contribuisce maggiormente allo svecchiamento di un brand che altrimenti finirebbe schiacciato dal peso degli anni e della reiterazione delle medesime dinamiche.
Prendendosi le consuete libertà, dovute ad esigenze di tipo televisivo, la serie mostra fin da subito l’intenzione di voler romanzare le vicende – forse in maniera ancora più evidente rispetto alle precedenti stagioni – comprimendo quelli che, verosimilmente, rappresentano anni e anni di indagini e operazioni, in un formato conforme al genere thriller d’inchiesta, allo scopo di bilanciare la noia delle suddette investigazioni utilizzando la regola delle tre S: soldi, sangue e sesso. Il risultato è un racconto molto ben bilanciato, ancora lontano dal suo centro narrativo, ma fin da subito costruito per attrarre a sé l’attenzione dello spettatore più esigente.
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La scelta di tornare indietro nel tempo rispetto agli avvenimenti narrati nelle precedenti stagioni, unitamente ad un maggior realismo nella messa in onda e ad un interessante parallelismo tra le due figure portanti di questo nuovo arco narrativo, rendono questo Narcos: Mexico un esperimento interessante dal punto di vista del rinnovamento del brand. L’episodio in sé non verrà certo ricordato come uno dei migliori, ma si tratta del secondo, quello di transizione per antonomasia, quindi per il momento evitiamo di sbilanciarci troppo e rimaniamo in attesa limitandoci ad un onesto Save Them All.
Camelot 1×01 | ND milioni – ND rating |
Le Système Des Plazas 1×02 | ND milioni – ND rating |
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.