“Big Little Lies / Mi try fi get by/ Pressure nah ease up no matter how hard me try / Big Little Lies / My heart have no base / and right now Babylon de pon me case”.
(Parodia di “Big City Life” dei Mattafix, scusate ma ci stava.)
Era sicuramente una delle serie più attese del 2017, Big Little Lies, ultima arrivata in casa HBO, casa di produzione che ha fatto la storia del piccolo schermo.
Si tratta di un dramedy famigliare condito da numerose sfumature crime con una trama che ricorda, per molti aspetti, il suo quasi-omonimo Pretty Little Liars. In entrambe le serie, infatti, c’è la presenza di un gruppo di amiche (in questo caso non più teenager, ma madri con diverse esperienze alle spalle) e un delitto (omicidio, per la precisione) che sembra interessare da vicino tutte loro.
Entrambe, inoltre, prendono spunto da dei romanzi (in questo caso dall’opera omonima di Liane Moriarty) e l’impronta letteraria si sente fortemente in ambedue le serie, a partire dal mezzo narrativo principale, dal forte sapore cinematografico (citando sia Viale del tramonto sia Quarto Potere), che è la serie di flashback iniziali raccontati direttamente dai personaggi di contorno (secondari fino a un certo punto) che funge da vero e proprio coro greco per la vicenda narrata. Questo espediente riesce, in maniera sorprendente, nello scopo di introdurre la storia che lega tra loro Madeline Martha Mackenzie (Reese Whiterspoon), Celeste Wright (Nicole Kidman), Jane Chapman (Shailene Woodley) e Renata Klein (Laura Dern) introducendo personaggi e caratteri in maniera diretta e precisa (perché raccontata da persona terza in modo da dare anche una sensazione di oggettività alle vicende) ma, allo stesso tempo, senza dire troppo di loro, lasciando comunque nascosti alcuni dettagli significativi che suscitano curiosità e spingono lo spettatore alla visione di tutti i 50 minuti dell’episodio.
Per la precisione, tutta la prima parte introduttiva (circa i primi 10 minuti) ha una specifica funzione: suscitare antipatia nei confronti del personaggio interpretato da Reese Whiterspoon e simpatia (quasi empatia) per tutte le altre protagoniste dello show. Particolare importante poiché, dopo questi 10 minuti iniziali, la narrazione prende tutt’altra direzione.
Se fino a questo momento, infatti, si ha la sensazione di assistere a una puntata che viaggia a metà tra Twin Peaks e Desperate Housewives (per quel misto di intrighi tra donne in un paesino dove tutto è apparenza e rapporti sociali basati sulla menzogna), la situazione cambia radicalmente nel punto di svolta che riporta a galla tutti gli scheletri nascosti malamente nell’armadio delle protagoniste e offre, allo spettatore, un buon motivo per proseguire la visione per i restanti 40 minuti.
Si tratta di un espediente abbastanza semplice ma molto efficace: l’accusa che la figlia di Renata rivolge nei confronti del figlio di Jane riesce a catturare l’attenzione puntando sull’emotività grazie al contesto in cui si svolge (il primo giorno di scuola elementare), il tema che tratta (un possibile caso di bullismo infantile) e la modalità con cui avviene (un’accusa pubblica che scatena tensioni da Far West metropolitano).
Un mezzo narrativo che si riscontra anche in The Slap, altra serie che parlava di conflitti famigliari e sociali e che faceva leva su questo tipo di tensione emotiva. Tutti questi rimandi farebbero pensare a una serie trita e ritrita che si serve di alcuni mezzi narrativi ben collaudati e di ampio rodaggio.
E, almeno per questa prima parte, è un sospetto ben fondato. Ma proprio qui, in realtà, si cela il motivo per cui questa serie può tranquillamente essere annoverata tra quelle cosiddette “di qualità”. La consapevolezza stilistica e registica, infatti, unita a quella narrativa, è impressionante: la fotografia da cinema autoriale si lega perfettamente alla recitazione, controllata e misurata, delle attrici protagoniste (sono ben lontani gli anni 90 in cui queste venivano semplicemente etichettate come “le fidanzatine d’America”) e, insieme a tali espedienti narrativi e a un lungo e intenso cliffhanger finale, creano un prodotto veramente consapevole dei propri mezzi e delle proprie potenzialità, tanto da snocciolare le vicende in maniera attenta e studiata (e non rivelando la cosa più importante: il nome della vittima su cui si sta indagando, il cui delitto lega le quattro protagoniste).
Un’attenzione che dimostra come la HBO, tutt’altro che morta e defunta, stia raccogliendo la sfida lanciata dalle concorrenti Netflix e Amazon rimanendo una delle reti di punta nel settore dell’intrattenimento intelligente.
La sensazione di “già visto” risulta così compensata ed è, alla fine, il vero punto di forza della puntata.
Tutto il cast è degno di nota (positiva ovviamente): oltre alle già citate protagoniste bisogna menzionare, tra gli altri, le interpretazioni di Perry (Alexander Skarsgand) e Bonnie (Zoe Kravitz) per lo sviluppo che mostrano all’interno dell’episodio (capace di farceli vedere in due ottiche completamente diverse in soli 50 minuti).
Tra la prima e la seconda parte, dunque, sembra veramente di assistere a due puntate completamente diverse, fino al cliffhanger finale che svela tutti gli input lanciati sapientemente durante tutto il tempo. Un coacervo di emozioni e spunti che trattengono (e intrattengono) lo spettatore fino alla fine, destando curiosità per le prossime puntate.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
|
|
Somebody’s Dead 1×01 | 1.13 milioni – 0.3 rating |
Quanto ti è piaciuta la puntata?
0
Nessun voto per ora
Tags:
Laureato presso l'Università di Bologna in "Cinema, televisione e produzioni multimediali". Nella vita scrive e recensisce riguardo ogni cosa che gli capita guidato dalle sue numerose personalità multiple tra cui un innocuo amico immaginario chiamato Tyler Durden!