“Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi, e io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza, perchè se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi”
Da quando è stata introdotta Samaritan, o, se vogliamo, da quando si è intuito che la Macchina, costruita da Harold e venduta al Governo per prevenire attacchi di terrorismo, possedesse infinite potenzialità di sviluppo, tra cui raggiungere addirittura vette di umanità e pensiero, il livello successivo è stato facilmente diagnosticato dalla maggior parte degli spettatori, o almeno quelli più a proprio agio con la materia. Chiunque abbia una minima dimestichezza con futuri distopici governati da macchine senzienti, senza scomodare per forza gli scritti di Isaac Asimov, basti pensare ai più celebri e popolari Skynet di Terminator (di Sarah Connor l’explicit del secondo episodio, riportato ad inizio recensione) o Matrix e il suo mondo “reale”, dove gli esseri umani sono perlopiù umili dipendenti se non ridotti in schiavitù, ha potuto quindi subito immaginare in quale direzione la trama generale di Person of Interest intendesse infine andare a parare.
Messa così, si può anche maliziosamente pensare che il team creativo dello show, capeggiato da Jonathan Nolan, non abbia inventato nulla, limitandosi a sguazzare all’interno dei canoni del genere di riferimento. Una tale ottica, però, non sarebbe del tutto onesta, perché non terrebbe conto innanzitutto dal punto in cui la serie è partita, e quindi del meraviglioso e inaspettato percorso intrapreso, e, soprattutto, dal modo in cui certe implicazioni sono state affrontate, a nostro avviso piuttosto unico e difficilmente riscontrabile in qualsiasi altro “collega” nel panorama televisivo attuale. I pregi e l’unicità di Person of Interest stanno tutte qui, nella sua atmosfera affascinante e utopistica, e, allo stesso tempo, drammaticamente realistica, attraverso un elevato quanto raffinato contenuto di riflessioni filosofiche e morali (almeno per quanto riguarda la componente “informatica” e principale). Considerazioni, queste, facilmente riassumibili nell’intensissima sequenza dell’ospedale psichiatrico, quando la Macchina entra direttamente in gioco, “parlando” faccia a faccia con Samaritan, in un climax memorabile e mai così suggestivo (e qui fa la sua cruciale parte la colonna sonora di Ramin Djawadi, autore, tra le tante, delle musiche di Game of Thrones), che ricorderemo a lungo all’interno della già ricchissima mitologia della serie.
Avevamo già avuto uno scontro verbale tra le due IA (Intelligenza Artificiale, per chiunque non abbia mai visto il film di Spielberg con il bambino del Sesto Senso), tramite Root e l’inquietante, per usare un eufemismo, fanciullo/avatar in “Cold War“. Allo stesso modo, avevamo già sentito, pure recentemente, la Macchina “parlare”, fin dal “Can you hear me?” indirizzato sempre al personaggio di Amy Acker, in occasione del finale della seconda stagione. Eppure, mai come questa volta l’impressione di assistere ad un punto di non ritorno, non solo della serie ma di tutto il palinsesto americano (poichè sentiero nuovo e, come detto, non praticato da pochi altri autori), è stata così viva e lampante. Specialmente se ci aggiungiamo quelle affascinanti implicazioni morali e filosofiche a cui accennavamo in precedenza, ovvero lo scontro Samaritan/Machine impersonato tra le dicotomiche ideologie Greer/Harold (H. “Do you ever lay awake at night wondering if one day it will see you as a threat? Or worse, as irrilevant” G. “How arrogant of you to think that any of us are anything but irrelevant“). Il cosiddetto step successivo è efficacemente realizzato, infatti, dall’evoluzione del concetto di irrelevant che permea lo show fin dal principio (e dalla sua prima opening). Si è così passati dal combattere l’idea di scissione tra vite umane “rilevanti” e non per una Macchina naturalmente priva di sentimenti, alla sua trasposizione dal punto di vista cinico e, stavolta, spaventoso dell’Uomo, in aggiunta allacciandosi magistralmente alla partita a scacchi tra Harold e la sua stessa creatura nell'”If-Then-Else” della stagione corrente (citata direttamente, tra l’altro, dalla stessa Root in occasione del suo “ricatto” sul tetto del palazzo). “You are not interchangeable“: insomma, l’ennesimo chapeau riconosciuto a Nolan & co.
Leggendo queste righe iniziali, però, si può avere l’impressione che l’intera puntata fondi le sue basi su di una sola storyline, e, soprattutto, che ci siamo dimenticati del periodo di forte flessione che lo show ha attraversato nel suo passato più recente. Niente di più sbagliato, altrimenti come altro interpretare la scelta degli autori di mettere in scena ben tre storyline (quasi) completamente distinte tra loro, se non come un tentativo di catturare l’attenzione e suscitare il giusto entusiasmo nello spettatore deluso dagli ultimi accadimenti? Innanzitutto va detto, consapevole o no, l’esperimento può giudicarsi oltremodo riuscito. L’idea di presentarci tre sottotrame, alternandole superbamente nell’arco dei quaranta minuti d’episodio, senza però mai farle congiungere (a differenza, quindi, dell’ormai caratteristico modus operandi dello show) poteva essere considerata più che rischiosa in partenza, ma allo stesso tempo sicuramente suggestiva, confermando la propensione degli autori ad osare senza particolari remore o timori di sorta. A fronte di tanto coraggio, però, non possiamo che provare un certo rimpianto, ripensando alle molte occasioni perse da un preciso punto della stagione in avanti. Sarà quindi davvero tutta “colpa” della gravidanza e della forzata uscita di scena della Shai? Considerando che a dare avvio alla brillante storyline di Harold e Root, che li porterà dritti dritti nel quartier generale della Decima e di Samaritan, è proprio un’estemporanea ed inattesa chiamata di Shaw, forse a tale, provocatoria, domanda si potrebbe quasi rispondere affermativamente.
L’accoppiata Finch/Groves è così la protagonista della sottotrama che potremmo definire “principale”, più che altro per la sconvolgente quanto inevitabile scoperta, da parte dei “cattivi”, del luogo in cui si nasconde la Macchina. E non ci poteva essere duo migliore di loro, vista la genialità informatica integrante del loro background, nonché il legame che da sempre li connette alla “Divinità” tecnologica. Le iterazioni tra i due, poi, sono irresistibili, sia nelle vesti più esclusivamente drammatiche (vedi la già citata scena del “ricatto” di Root alla Macchina) sia in quelle più leggere e ironiche (vedi, stavolta, la “finta” pazzia di Harold all’indirizzo dei medici del manicomio), davvero lontani parenti di quelle poco convincenti e spesso eccessive viste, per esempio, in “Skip“. Tralasciando il possibile lavaggio del cervello subito da Shaw, su cui sospendiamo il giudizio dato il suo probabile ritorno solo nella stagione prossima, va registrata la fulminea quanto sconcertante, per come arriva, eliminazione di Martine, che arriva completamente a ciel sereno, dimostrando come la versione psyco di Miss Groves, se dosata, può ancora regalare grandi emozioni.
Quasi straniante, proprio per la sua separazione netta dalle atmosfere e dai contenuti fino a qui riportati (unico vero rimando alla Macchina, il contatto di “Mr. Thornhill” ad Harper, che a sua volta ricorda l’accenno dell’accaduto in “Skip“), la storyline di Reese e Fusco alle prese con la guerra tra gang di Elias, da un lato, e DoMINIc dall’altra. Proprio consapevoli del solito modo di scrivere i finali di stagione, ossia mono-laterali e ultra-verticali, in molti si aspettavano la messa in scena del climax o di una trama o dell’altra, quindi o The Machine o The Brotherhood. Perciò potete immaginare la (piacevole) sorpresa nel ri-vedere Enrico Colantoni/Elias e la sua resa dei conti con l’Avon Barksdale dei poveri. A proposito di personaggi di The Wire, a fare le spese della spirale di vendetta tra i due boss è Link, ovvero l’attore che nella serie HBO interpretava lo spietato Marlo (altro evidente riferimento, tra l’altro, per il character di Dominic). Occhio per occhio, braccio destro per braccio destro, allora, anche se dubitiamo che la lotta sia finita qua, piuttosto (forse) solo per questa stagione. Comunque, per quanto, data la caratteristica del personaggio di essere sempre “un passo avanti” all’avversario, il plot twist del successo del piano di Elias fosse più che preventivabile, va sempre dato un degno plauso alla bravura del padre di Veronica dell’attore nel riuscire puntualmente a trasmettere uno spessore gigantesco al suo ruolo.
Basterebbe solo questo per godersi appieno l’avvincente sottotrama, noi ci aggiungiamo anche il fatto che le sue ridotte conseguenze, poichè ristrette alla supremazia di una realtà cittadina ed urbana, sembrano in questo modo poste consapevolmente in contrasto con quelle invece più enormi e globali non solo della storyline di Finch, ma anche, e forse sopratutto, di quella di Control. Con un minutaggio decisamente minore, ma non per questo meno mozzafiato, il duro interrogatorio gestito dalla finalmente illuminata Ma’am (che si collega alla sua presa di coscienza avvenutasi in “Control-Alt-Delete“) apre infatti le porte allo sviluppo più importante quanto terrificante del micro-cosmo della serie. La “Correction“, datata 6 Maggio, sembra così molto simile al primo atto di svolta per quella supremazia, stavolta, mondiale delle macchine sul genere umano, di cui parlavamo ad inizio episodio, e che tanta letteratura e cinematografia sci-fi hanno riccamente sviscerato. Sarà Skynet, sarà Matrix, o sarà, come ci aspettiamo, una rivoluzione tutta particolare in pieno stile PoI?
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Terra Incognita 4×20 | 9.21 milioni – 1.5 rating |
Asylum 4×21 | 8.45 milioni – 1.4 rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.