Dopo una quarta stagione inaspettatamente convincente – fatta eccezione per il debole season finale -, solida dal punto di vista narrativo e accattivante nonostante la necessità della serie di reinventarsi, Homeland torna sulla scena in grande forma, mostrando la sua straordinaria capacità di rinnovarsi anno dopo anno senza però abbandonare la propria natura, ma anzi continuando il suo percorso in maniera coerente toccando argomenti d’attualità per nulla semplici da trasporre sul piccolo schermo. La scelta di impostare un nuovo racconto basandosi fondamentalmente sull’abbandono della CIA da parte della sua Drone Queen, per quanto rischiosa, ha certamente dato i suoi frutti se la si analizza al termine della visione di questo secondo episodio. Dopo una premiere necessariamente sottotono, complice l’esigenza di dover ordire un nuovo intreccio narrativo che non risultasse banale o raffazzonato, la serie entra subito nel vivo, gettandosi alle spalle la parte introduttiva per catapultarci direttamente in Libano.
L’apparente calma che aleggia sulla nuova vita berlinese di Carrie, contraddistinta da una ritrovata serenità psicologica ed emotiva, una nuova vita familiare e la totale sobrietà, si ritrova ben presto minata nelle sue fondamenta da un lavoro che per sua sfortuna le calza fin troppo a pennello. Ecco quindi il primo elemento di continuità con le stagioni precedenti: l’impossibilità di separare due mondi, personale e lavorativo, finendo necessariamente col rinunciare a uno di essi. Nella quasi totalità dei casi a spuntarla nella disputa è il secondo, complice la naturale predispozione della donna al ruolo di agente sul campo. Proprio nel momento in cui la vecchia Carrie, per nulla intenzionata a crescere una figlia e talmente votata al suo lavoro da non ricordare le motivazione che l’hanno spinta a metterla al mondo, lascia il posto a una donna nuova, apparentemente decisa a costruirsi una famiglia, ecco che un nuovo incarico si presenta alla porta, mettendo in evidenza la sostanziale differenza tra proposito e reale attitudine. Il fallimento di Carrie in merito a questa ricerca di stabilità trova il suo culmine nell’attentato al campo del generale Alladia. Una sequenza costruita magistralmente partendo dal discorso di Otto Düring, la cui musica di sottofondo ha il compito di costruire lentamente un clima di tensione che lo spettatore non può fare a meno di percepire, per poi accelerare fino all’esplosione finale. Un’esplosione che catapulta subito Carrie al centro dell’azione, oltre che avere il compito di rivelarci che è proprio lei ad essere l’obiettivo dell’attentato.
Questa rivelazione, insieme al quantomeno prevedibile cliff-hanger, porterebbero a pensare ad un coinvolgimento di Saul in tutta questa faccenda. La scontatezza di tale teoria ci porta naturalmente a pensare il contrario, anche se è oramai innegabile che il rapporto tra Carrie e il suo mentore sia arrivato al suo momento più basso all’interno della serie. Un rapporto che rappresenta il secondo elemento di continuità con le serie precedenti e che nonostante sia ormai usurato non manca di essere posto sotto i riflettori nel corso dell’episodio, in particolar modo nello scambio di battute con Allison Carr – “If I were Carrie Mathison, what would you be doing right now?” -, uno scambio che oltre a sottolineare l’esclusività del rapporto intercorso tra i due, sancisce il fallimento professionale di Saul, venduto senza remore dalla sua collega a Dar Adal per potersi salvare dal trasferimento.
Il personaggio che però esce maggiormente frastornato da questo inizio di stagione è certamente Peter Quinn, svuotato di tutte quelle sfaccettature brillantemente ricamate lo scorso anno dagli autori sul personaggio di Rupert Friend e tremendamente appiattito in termini di caratterizzazione. L’impressione è quella di una regressione del personaggio, tornato ad essere un semplice burattino nelle mani dell’agenzia, senza tutte quelle complessità che nella passata stagione lo avevano reso uno dei carachters più interessanti della serie.
Il telefilm comunque riparte molto bene, soprattutto considerando l’enorme difficoltà nel trattare tematiche attualissime e su cui, a livello televisivo o cinematografico, si è fatto poco o niente. ISIS, accenni a Edward Snowden, rifugiati siriani e collaborazioni tra CIA e BND (a richiamare il report di Der Spiegel sul passaggio di informazioni tra BND e NSA a discapito dei paesi europei) sono tutti temi che in fin dei conti non possono essere ancora catalogati come “storia”, ma bensì costituiscono il nostro presente e in quanto tali risultano molto complessi da trasporre in un’opera televisiva con lucidità e obiettività. Si è deciso dunque di puntare sul tema privacy per quanto concerne la storyline principale, sfruttando uno dei temi di maggior interesse nella società post 9/11 e riversando questa ricerca di realismo anche sulla costruzione dei personaggi, al centro di un processo di umanizzazione molto più strutturato rispetto alla precedente stagione.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Separation Anxiety 5×01 | 1.66 milioni – 0.6 rating |
The Tradition Of Hospitality 5×02 | 1.39 milioni – 0.5 rating |
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.