“The stage is set, the curtain rises. We are ready to begin.”
Se per alcuni la frase “nulla è come sembra” appare come un monito scontato, dopo due anni di assenza Sherlock ci ricorda con uno schiaffo in pieno viso che così non è, anzi.
Lo speciale vittoriano che il pubblico appassionato della serie aspettava da troppo tempo è tutt’altro che una storia fine a sè stessa, ma un ponte lunghissimo tra la terza stagione e la quarta che verrà girata in primavera per arrivare sugli schermi, presumibilmente, nel 2017.
Siamo nel 1895 e la prima parte della puntata è un abile gioco per gli amanti degli scritti di Conan Doyle; numerose sono infatti le citazioni da “L’Avventura Del Carbonchio Azzurro” a “I Cinque Semi D’Arancio“. Seguono poi rimandi continui alle passate stagioni della serie stessa, come il valzer di Mary e John suonato da Sherlock al loro matrimonio, la presenza del piccolo Archie, una versione inedita di Molly Hooper, un grasso e intelligentissimo Mycroft, addirittura la damigella d’onore Janine.
Ma fin da subito si percepisce un fantasma enorme, uno spirito che aleggia su Sherlock e che si insinua nella sua mente, letteralmente.
Il caso di Emelia Rigoletti, la sposa suicida che risorge per uccidere suo marito e tormentare gli uomini colpevoli di non rispettare la donna e i suoi diritti, è abilmente orchestrato ed è il movente che introduce un tema politico importante nell’epoca in cui la puntata è ambientata, ovvero il movimento delle suffragette e la loro lotta all’emancipazione femminile. Una guerra silenziosa sotto gli occhi di tutti che il nemico è destinato a vincere, perché ha ragione: così Mycroft riassume in poche parole la morale del caso, che vede le donne, anche quelle vicine a Sherlock, coinvolte in modo diverso. Sia il dottor la dottoressa Molly Hooper che l’infermiera-spia Mary Morstan in Watson, perorano la causa frustrate dalla condizione in cui, nel mondo nuovo che avanza, ancora vive il genere femminile.
Eppure più scorrono i minuti, più lo spettatore risucchiato dal vortice frenetico di pensieri e azioni di Holmes, comprende che non è tutto qui, non può essere tutto qui: “The Abominable Bride” è un viaggio all’interno del palazzo mentale di Sherlock, che nel finale di “His Last Vow” ha assunto un cocktail di droghe per entrarci sempre più in profondità e capire come, la sua nemesi, sia riuscita a sfuggire alla morte.
Moriarty dunque, sempre e solo Moriarty: è lui la personificazione delle debolezze di Sherlock, parte integrante della sua mente, colui in grado di distruggere la solidità del detective. L’avventura vittoriana è un viaggio tanto assurdo quanto ben costruito in cui Holmes deve necessariamente liberarsi del fantasma del nemico per riuscire a scoprire la sua mossa e sconfiggerlo nella realtà.
Il dialogo tra Sherlock e Jim riflette il rapporto di stima reciproca tra due menti brillanti che riconoscono nell’altro il proprio opposto, Dottor. Jekyll e Mr. Hyde, due facce di una medaglia identica. Holmes sceglie la razionalità ma si scontra inevitabilmente con la follia di Moriarty, l’imprevedibilità passionale del criminale in grado di scuotere le fondamenta della sua lucidità. Jim è la fragilità di Sherlock, l’ossessione che non gli consente di guardare al problema con fredda determinazione. Il Moriarty di Scott è superbo e sopra le righe quanto basta per non sfociare nella macchietta, risulta il contraltare perfetto, sfacciato ed intelligente. Nel momento in cui la scena si sposta alle Cascate di Reichenbach, è palese la lotta tra i due e, grazie all’intervento di Watson, Holmes segue Moriarty nel baratro, abbracciando l’altra metà di sè stesso, sicuro del fatto che: “just between you and me, I always survive a fall“. Ancora una volta è John che aiuta Sherlock, fornendogli la sicurezza necessaria per compiere una scelta grazie al rapporto che li lega e che inevitabilmente influisce nelle vite di entrambi.
È un piacere vedere sullo schermo Cumberbatch e Freeman, la chimica tra loro è sempre palpabile e se possibile, grazie all’incursione dei due nell’universo temporale di Doyle, ancor maggiore.
Non mancano infatti le battute, le frecciatine ma soprattutto la profondità del loro sodalizio, così come si vede nel momento in cui i due si confrontano sull’animo complesso di Sherlock, sulla sua mancanza (?) di empatia. Nella discussione trova spazio anche Irene Adler, “The Woman“, per Holmes l’unica donna intesa come tale e non solo come essere umano. Insomma, come già detto precedentemente, non esiste John senza Sherlock ma soprattutto non esiste Sherlock senza John, questo è un dato di fatto. In tutto ciò è interessante notare il ruolo di Mary, sempre più inserita nel duo, nient’affatto interessata a turbare il rapporto tra i coinquilini di Baker Street e, come nel 1895, speriamo di poterla vedere complottare con Mycroft anche in futuro.
A proposito del maggiore dei fratelli Holmes: Gatiss è impeccabile nel consegnarci la figura fredda e calcolatrice ma sinceramente legata a Sherlock. È Mycroft colui che sprona il fratello a restare concentrato, a superare ogni limite imposto dalla sua mente; se John è il cuore del detective, Moriarty la sua debolezza, è senza dubbio Mycroft a rivestire il ruolo della sua razionalità.
Moffat e Gatiss hanno beffato il proprio pubblico consegnandogli non solo una storia mistery classica, ambientando i personaggi nel contesto nel quale sono nati, ma regalando un plot twist della vicenda che sorprende, aumentando l’attesa ancor più spasmodica dei prossimi episodi.
Tutto funziona, il ritmo è velocissimo così come lo sono i ragionamenti e le deduzioni di Holmes, tanta carne al fuoco e un ritorno di ottima qualità della serie.
Sherlock è tornato, anzi, non è mai andato via: “Then come Watson, come, the game is afoot!”
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.