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Come molti di voi sapranno, la prima stagione di Designated Survivor doveva avere, in origine, tredici episodi, che sono diventati ventidue dopo un inizio piuttosto promettente. I precedenti due episodi, dunque, possono considerarsi l’epilogo di quello che sarebbe dovuto essere il primo ciclo di episodi. “Commander-In-Chief”, per questo motivo, potrebbe essere ritenuto una sorta di season première, e questa definizione calza piuttosto a pennello. Come in ogni inizio di stagione, infatti, si tirano le somme degli eventi accaduti in precedenza, si introducono nuovi personaggi e vengono introdotte nuove stroyline. Nei primi tredici episodi, Tom Kirkman ha dovuto reagire in continuazione ai ripetuti pericoli e alle numerose minacce che attanagliavano l’America. Da questa puntata in poi, Tom Kirkman sembra invece voler iniziare a governare, cioè a prendere in mano le redini della nazione, a lanciare la controffensiva ai cospiratori e a non essere più, dunque, in balia degli eventi.
Questi due termini, reagire e governare, suoneranno certo familiari agli spettatori. Sono stati, infatti, pronunciati, dall’ex presidente Cornelius Moss, tornato a Washington per offrire la sua esperienza in uno dei momenti più tragici nella storia del Paese. La presenza di Moss fa, immediatamente ed ovviamente, scattare il paragone tra lui e Kirkman, ed è abbastanza impietoso per l’ex segretario allo sviluppo urbano. Nonostante negli ultimi episodi la situazione fosse passata un po’ sottotraccia, Tom Kirkman è un uomo con nessuna esperienza politica che ha collezionato diverse pessime figure in campo internazionale (la gestione di Coach Weston) e interno (morte di Majid Nassar). Per questo motivo, non può che sembrare impacciato e fuori posto rispetto al navigatissimo ed affabile Moss, che conosce tutti i membri della Casa Bianca e si comporta con disinvoltura, come fosse ancora POTUS. Ad un primo impatto, le aspre critiche rivolte al fu Jack Bauer possono renderlo inviso allo spettatore, ma in realtà hanno la funzione di ricordargli che praticamente nessuno, negli USA e nel mondo, lo ritiene adatto a questo ruolo. Un’ulteriore conferma ci viene data dal reo confesso Charles Langdon il quale, oltre a fornire rivelazioni importanti per ricostruire la vicenda, apre anche un altro filone: la nomina di Kirkman a Designated Survivor è stata pilotata; il motivo è che, tra tutti i membri del gabinetto, lui era quello ritenuto meno adatto a governare e, per questo, più facile da sconfiggere. La responsabile di ciò pare essere una donna che quindi si aggiunge ad una lista sempre più lunga di cospirazionisti: oltre a lei, infatti, ci sono i MacLeish, Claudine Poyet (la donna che ha sedotto e ingannato Langdon per ottenere informazioni riservate e vitali per l’attentato, nonché responsabile della morte di Luke Atwood) e la misteriosa persona che stava ricattando Langdon. Uno degli obiettivi di questa seconda parte di stagione, dunque, sarà cercare di capire l’identità della donna che ha, di fatto, fatto diventare Kirkman l’uomo più potente del mondo.
Di recente, sempre più ipotesi vedono Alex Kirkman coinvolta in tutto ciò. Un indizio potenzialmente importante, in questo senso, può essere rappresentato da una frase detta quasi di sfuggita, per di più in un momento non particolarmente rilevante dell’episodio: “Non soddisferai mai le aspettative di mia madre, rassegnati, è russa”. Come ben sapete, le serie tv americane a sfondo politico/spionistico hanno avuto, storicamente, due grandi nemici: i russi e i jihadisti (soprattutto dall’undici settembre in poi). Designated Survivor, inizialmente, aveva presentato questi ultimi come antagonisti, ma ha deciso quasi subito di intraprendere un altro percorso.
Inutile negarlo, show di questo tipo sono da sempre fortemente influenzati dalla situazione politica del momento. Per questo motivo, in un periodo storico nel quale si cerca di opporsi ai ban nei confronti di alcuni Paesi a maggioranza musulmana e si torna a parlare della Russia come di un nemico temibile (tanto temibile da aver avuto, secondo parte dell’opinione pubblica, un ruolo fondamentale nelle ultime elezioni presidenziali), difficilmente quel dettaglio è stato messo lì in modo casuale o involontario, esattamente come i dubbi del Commander In Chief nei confronti di Brett Ambrose, negazionista del cambiamento climatico (altro punto molto controverso dell’attuale amministrazione). Se a ciò si aggiunge un rapporto già non idilliaco con l’ambasciatore russo (per la vicenda di Weston), l’ipotesi sembrerebbe prendere sempre più corpo. Di certo si tratta di una storyline potenzialmente molto interessante, che va sviluppata con calma, evitando approssimazioni e semplificazioni eccessive. Queste due cose, infatti, sono state sin da subito tra i più grandi punti deboli dello show, soprattutto se lo si vuole considerare di alto livello (che era come ci era stato presentato sin dagli upfronts: non un guilty pleasure o una serie alla Quantico, bensì un prodotto molto ambizioso), e anche questo episodio, purtroppo, non ne è esente. Per quanto si possa capire che una persona innamorata spesso non si accorga di fatti anche piuttosto evidenti, è abbastanza improbabile che un uomo con l’esperienza di Langdon non abbia sospettato nulla quando Claudine gli ha chiesto tutti quei file classificati. Una serie come Designated Survivor deve cercare di evitare queste forzature il più possibile. Un importante banco di prova, in questo senso, sarà la questione del signore di guerra africano e del suo possibile colpo di stato: la questione, per il momento, è stata gestita in modo più che discreto, con la dimostrazione di astuzia ed esperienza da parte di Moss e l’intuizione finale di Kirkman, che dimostra di essere uno che impara in fretta. La situazione, però, è tutt’altro che risolta, visto che Atsu Kalame (il signore della guerra) è stato rallentato nella sua marcia, non fermato. Un intervento internazionale, dunque, è ancora necessario, e sarà il nuovo Segretario di Stato (Moss) a doversene occupare. Il suo più grande compito sarà quello di convincere l’unico dei cinque Paesi nel Consiglio di sicurezza permanente (quelli con potere di veto) a non porre più il veto. Quel Paese, come si può immaginare, è la Russia, che diventa sempre più il nemico principale. Questa storyline, dunque, non deve essere abbandonata a se stessa, ma deve essere continuata. Non farlo sarebbe un passo falso di dimensioni non ridotte.
Vanno segnalate, inoltre, le dimissioni di Aaron Shore, che non vuole che il Presidente sia travolto da un altro scandalo. Questo vuol dire sia la nomina ufficiale di Emily come Capo di gabinetto, sia che un uomo della bravura e della capacità politica di Aaron (che, per di più, ha lavorato fianco a fianco con Kirkman) è di nuovo sul mercato. Queste frasi non sono casuali: nel trailer del quindicesimo episodio, infatti, la Speaker Hookstraten gli offre di andare a lavorare con lei.
Un po’ in secondo piano, rispetto alle ultime puntate, l’agente Wells, che però compie una scelta di carriera molto importante, passando a lavorare direttamente per il Presidente con il compito di dipanare la matassa intricatissima che ha cospirato per distruggere il Campidoglio.
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“Commander-In-Chief” non è un episodio memorabile, né un episodio esente da errori e imperfezioni. Nonostante questo, ci sentiamo di ringraziare, soprattutto come incoraggiamento nei confronti di una seconda parte di stagione potenzialmente molto interessante
Backfire 1×13 | 5.21 milioni – 1.1 rating |
Commander-In-Chief 1×14 | 5.15 milioni – 1.1 rating |
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Romano, studente di scienze politiche, appassionato di serie tv crime. Più il mistero è intricato, meglio è. Cerco di dimenticare di essere anche tifoso della Roma.