Giunge al termine anche il cammino stagionale di American Gods, confermatasi una delle più belle rivelazioni di questo 2017. Con questo “Come To Jesus” si conclude un ideale prologo di otto puntate, frutto di un ottimo lavoro autoriale nonché dimostrazione di quanto l’universo della serialità televisiva, molto più del cinema, si presti alla rappresentazione di opere letterarie complesse e strutturate come quella di Gaiman.
Gli spettatori più impazienti saranno rimasti delusi da questo primo ciclo stagionale, costruito al solo scopo di tratteggiare un universo narrativo solido e coerente, dominato da dèi (vecchi e nuovi) e misticismo, e sviluppato a partire da un’attenta opera di caratterizzazione dei protagonisti principali del racconto. Considerata la relativa brevità del romanzo era inevitabile che il focus autoriale virasse in direzione di un approfondimento della mitologia che sostiene l’intera opera, piuttosto che sull’avanzamento diegetico vero e proprio. Il risultato finale non può che essere soddisfacente, giudizio confermato dall’effettiva riuscita di episodi quali “A Prayer For Mad Sweeney“, sostanzialmente filler, eppure mai percepiti come tali dallo spettatore.
Si conclude così una stagione all’insegna di viaggi mistici, dialoghi surreali e situazioni grottesche, che potrà appagare o meno i puristi della trasposizione da romanzo, ma che certamente non potrà deludere nessuno dal punto di vista del piacere visivo. Una conclusione costruita attorno ai temi centrali, tanto cari all’autore, di adattamento e sopravvivenza (“It’s religious darwinism“) delle antiche divinità, relegate a semplici favolette per bambini a causa della presunzione umana di poter vivere la propria esistenza senza un credo religioso, rispetto alle nuove, incarnate qui da Technical Boy e Media, divinità nate come diretta conseguenza dell’evoluzione della razza umana e contraddistinte da nuove regole di controllo nei confronti dei propri seguaci, ben lontane dal modello preghiera-ricompensa tanto caro a Mr. Wednesday.
“Come To Jesus” mette così il piede sull’acceleratore e, ovviando alla relativa lentezza diegetica (da noi già ampiamente giustificata) catapulta lo spettatore direttamente al fatidico punto di svolta della serie, costituito non soltanto dalla rivelazione della vera identità di Wednesday, ma anche dalla dichiarazione di guerra di Mr. World e dal reclutamento di Ostara. Easter è rappresentata alla perfezione, nonostante il brevissimo tempo a disposizione davanti alla macchina da presa, da una superba Kristin Chenoweth che in poche ma semplici battute riesce a conferire al suo character personalità, carisma, forza ed ironia, senza mai risultare ridicola nonostante lo stile simil-burtiano richiamato dalla sua fiabesca dimora e dall’orda di Jesus che ne riempie stanze, corridoi e giardini.
La figura di Shadow viene qui relegata a poche ma importanti sequenze, una su tutte il vis a vis con il Jesus Prime di Jeremy Davies (il Daniel Faraday di Lost), momento cruciale dal punto di vista del percorso di accettazione che porterà il protagonista ad abbracciare la fede nonostante il suo forte e radicato scetticismo. Accettazione che giungerà definitivamente al termine del dialogo con Mr. Wednesday/Odino:
Mr. Wednesday: “Do you believe?”
Shadow: “I believe.”
Mr. Wednesday: “What do you believe?”
Shadow: “Everything.”
Botta e risposta che, proprio con quel “everything” finale, mette in evidenza un altro dei temi cari all’episodio e, in generale, alla serie: la convergenza di elementi ideologici inconciliabili tra loro, appartenenti non tanto a dottrine religiose differenti quanto invece a culture molto lontane, catalogabili sotto l’etichetta “religione” per il semplice fatto di presupporre un gruppo di seguaci e un potere di controllo su di essi, sia esso conclamato o celato ipocritamente dai suoi detentori.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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A Prayer For Mad Sweeney 1×07 | 0.63 milioni – 0.3 rating |
Come To Jesus 1×08 | 0.77 milioni – 0.3 rating |
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.