“For a lot of people, life is just one long hard kick in the urethra and sometimes, when you get home from a long day of getting kicked in the urethra, you just want to watch a show about good likeable people who loved each other, where, you know, no matter what happens, at the end of thirty minutes, everything it’s gonna turn out ok. You know, because in real life… Did I already say the thing about the urethra?”
Tra le numerose regole che amministrano la sempre più prestigiosa lobby d’oro dei recensori di Recenserie troviamo quasi al vertice il divieto tassativo di recensire serie animate. Questo per ovvie ragioni, prima fra tutte la sterilità di un’analisi riguardante un episodio di un cartone animato che il più delle volte risulta slegato dal resto della stagione o che, spesso e volentieri, sviluppa la propria narrazione a partire da schemi e modalità viste e riviste in altre mille altre opere televisive. L’altra ragione è invece da ricollegare direttamente alla forma di governo assunta dalla nostra redazione, una dittatura mascherata da democrazia partecipativa che in realtà si traduce in una cleptocrazia illuminata accettata di buon grado dai diversi redattori per ovvie ragioni di tutela personale. Come accade però nelle migliori storie di emancipazione e rivalsa popolare, il temporaneo allentamento delle maglie del potere ha fatto sì che un manipolo di recensori potesse cambiare la storia e quindi, tenendo a mente quanto detto finora, la scelta è ricaduta sulla serie animata che, più di tutte le altre, si allontana dal modello descritto in apertura.
Per i pochi che ancora non hanno avuto modo di esplorare il bislacco universo narrativo ideato da Raphael Bob-Waksberg, dove animali antropomorfi e umani convivono con naturalezza, talvolta anche accoppiandosi, la serie narra le vicende dell’ex star hollywoodiana Bojack Horseman – letteralmente un “cavalluomo” – sulla cresta dell’onda negli anni novanta grazie alla sit-com fittizia Horsin’ Around e ora alle prese con l’inesorabile declino dovuto alla chiusura dello show. A sorprendere, però, non è tanto l’incipit, decisamente originale se messo in relazione al classico modello familiare utilizzato in opere coeve quali The Simpsons, Family Guy o American Dad, bensì l’incredibile capacità dello show di farci riflettere sulle nostre ansie, paure ed angosce più recondite parlandoci attraverso un ex divo hollywoodiano equino e la sua parabola discendente tra depressione, misantropia e abuso di alcol e droghe. Per giunta senza ricorrere necessariamente al classico lieto fine moraleggiante, proverbiale ago nel pagliaio nei quasi cinquanta episodi andati in onda finora. Ma non perdiamoci ulteriormente in chiacchiere e vediamo invece di iniziare a percorrere insieme questo animalesco viale del tramonto, paragrafo dopo paragrafo, recensore dopo recensore.
Le influenze della nuova TV in una serie d’animazione
a cura di Valerio Di Paolo
Chiunque, di qualsiasi età al di sotto dei 120 anni, è cresciuto con i cartoni animati. Dai veri e propri kolossal della Walt Disney, fino alla struttura seriale dei cartoni animati televisivi, ogni cartone animato è stato il riflesso di un’era e ha lasciato nello spettatore il ricordo di particolari fasi della vita.
Banalmente, ciò che un cartone animato può fare è dare sfogo massimo alla fantasia dell’autore, non più chiuso all’interno di limiti “umani”, ma con una libertà figurativa e creativa illimitata. Scelto il destinatario (infanti, adolescenti, adulti) il testo si scrive da solo.
Bojack Horseman e i suoi creatori se ne fregano di tutto quanto è stato detto nelle righe precedenti. Quando si guarda Bojack Horseman, il cervello dello spettatore ha attivati gli stessi identici meccanismi di quando guarda qualsiasi altra serie di qualità del piccolo schermo. L’incontinenza creativa degli ultimi 10 anni in materia di serie TV ha spinto lo spettatore a ingozzarsi letteralmente di numerosi stili, format, schifezze cancellate immediatamente, pietre miliari della televisione. In Bojack Horseman si gode dell’interpretazione di Will Arnett, di Alison Brie, di Aaron Paul allo stesso identico modo di quando si guarda Arrested Development, Community o Breaking Bad (show dove gli attori citati hanno lavorato), ci si diverte a scovare le guest star che prestano le voci a personaggi più o meno ricorrenti e importanti.
Bojack Horseman è la televisione di questi ultimi anni che racconta se stessa con estrema lucidità e schiettezza, non tradendo né la coerenza narrativa dovuta dalle aspettative spettatoriali degli anni dieci, né la caratterizzazione tridimensionale di ogni singolo personaggio. Che tutto questo venga attuato con animali umanizzati – con una notevole accuratezza zoologica – è solo una diretta conseguenza delle vette di creatività sempre più coraggiose che si stanno raggiungendo.
Il nichilismo è il profumo della vita: perché la vita è una merda, ma dalla merda possono nascere grandi cose
a cura di Fabrizio Paolino
“La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.” – A. Schopenhauer
Nell’oramai lontano 2005 il compianto poeta Tonino Guerra, rivolgendosi allo sconsolato amico Gianni, concludeva la sua campagna pubblicitaria per una nota catena di elettronica di consumo con una frase divenuta iconica: “l’ottimismo è il profumo della vita!”. Assunto che trova conferma in una moltitudine di studi che, a quanto pare, dimostrerebbero come essere ottimisti aiuti a creare occasioni per se stessi e per la propria felicità. A partire da questo concetto fumoso e a tratti chimerico si sviluppano gran parte delle comedy in circolazione, create appositamente per far riflettere lo spettatore sui propri problemi e sul rapporto con le altre persone, tentando, di fatto, di renderlo un individuo migliore attraverso la riproposizione di situazioni familiari in cui potersi rispecchiare facilmente. Per fortuna – o per sfortuna, decidete voi – non tutte le commedie si pongono come fine ultimo la ricerca della felicità, puntando invece alla veicolazione di un altro concetto altrettanto veritiero, e probabilmente causa della profonda depressione dell’amico Gianni: la vita è una merda. Riprendendo le parole di Alessandro Baricco: “Si scopre alla fine che il dolore, tutto quel dolore, era inutile, che si è sofferto come bestie, ed era inutile, non era giusto né ingiusto, non era bello o brutto, era solo inutile“. Lungi dal voler affrontare una spinosa discussione sull’evidente inutilità dell’esistenza, questo breve aforisma, per il quale dobbiamo ringraziare Feltrinelli e i suoi sconti prepotenti sulle opere dello scrittore torinese, riesce perfettamente a racchiudere l’anima dello show: un piccolo rifugio felice per tutte quelle persone che ritengono la vita sia una merda, un’ode alla vacuità, e sanno che difficilmente la situazione cambierà ma, resi forti da questa consapevolezza, continuano a tirare avanti, trascinandosi a fatica, goffamente, in quel campo minato pieno zeppo di aspettative e responsabilità pronte ad esploderti sotto i piedi mutilandoti emotivamente per il resto della tua futile esistenza.
A fare da collante tra tutti i 48 episodi (e uno special natalizio) troviamo un tema caro a tutti i depressi cronici, categoria di cui fa parte orgogliosamente il recensore che ora condivide con voi lettori questo prepotente getto di diarrea emotiva, ma che in fin dei conti tormenta ogni singolo essere umano, a prescindere che si tratti dell’amico fastidiosamente ottimista a cui vorremmo cavare i premolari con una pinza o che si tratti di Gianni: la difficile ricerca di un posto per se stessi all’interno di questo mondo. Una ricerca che talvolta ci sembra non porti a nulla – e in alcuni casi effettivamente non porta a nulla – e che qui si traduce nella costante tendenza all’autodistruzione e alla perenne insoddisfazione di Bojack, individuo misantropo e sociopatico reso tale dall’involontario sadismo dell’Essere.
Bojack Horseman non ha nulla da spartire con altre serie animate concepite a partire dallo stesso presupposto – nello specifico far ridere attraverso la proposizione di tematiche delicate rivisitate in maniera grottescamente scherzosa – quali The Simpsons (ai tempi d’oro delle prime stagioni) o Family Guy (quando le puntate non venivano scritte dai lamantini), e ciò dipende dalla sua straordinaria capacità di toccare argomenti quali la depressione, l’incapacità cronica di amare un’altra persona o la difficoltà di relazionarsi con altri individui in maniera diretta e dissacrante, senza preoccuparsi troppo di bilanciare componente comedy e componente drammatica, bensì concedendosi episodi eminentemente drama, al termine dei quali un sorriso, quasi magicamente, solcherà comunque il nostro viso. Un sorriso che avrà un retrogusto un po’ amaro e che ci farà ripensare a tutte le storie d’amore con la Princess Carolyn di turno, gettate nel cesso per colpa della nostra natura da disadattati; alle aspettative genitoriali tradite; alle persone scomparse e alle questioni rimaste irrisolte; alle paure e alle insicurezze, che come noi non hanno fissa dimora e ci tengono per mano fino alla resa dei conti finale. Un sorriso dal sapore acre nato dalla consapevolezza che, in fin dei conti, essere il solito perdente in una vita che si tinge di merda non è poi ‘sto dramma infinito. Tanto più se teniamo a mente che, come ci è stato spiegato da un ispiratissimo Mr. Peanutbutter: “L‘universo è solo un vuoto crudele e indifferente e la chiave per la felicità non è trovare un significato, ma tenersi occupati con stronzate varie fino a quando è il momento di tirare le cuoia“.
Bojack Horseman e l’incubo della solitudine
a cura di Aldo Longhena
“Si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile.”
-Cesare Pavese
Procedere con la visione di Bojack Horseman è paragonabile ad un’immersione completa e continua nell’ampio spettro delle emozioni umane, qualsiasi sfaccettatura venga presa in considerazione. L’immersione è dolce, sospinta dalla corrente e dall’adrenalina del momento. La serie si appropria di stilemi narrativi già conosciuti allo spettatore e li ripresenta sotto forma di cartone animato rincarando la dose con black humor e satira, non disdegnando parentesi decisamente drammatiche.
Una volta superata questa fase, l’immersione si dimostra violenta e paralizzante: la comicità viene messa momentaneamente da parte e vero fulcro della storia diventano le dinamiche (tremendamente drammatiche) sociali di Bojack e di ogni singolo personaggio chiamato in causa all’interno dello show.
Definire e porre Bojack Horseman come serie che analizza “la vita (che è una merda)”, vorrebbe dire banalizzare concetti ed introspezioni presentate via via in queste quattro stagioni dello show.
Da annotare il fatto che la serie procede con un lento, ma rigoroso, rovesciamento dell’attenzione: inizialmente sotto la luce dei riflettori era posto in misura maggiore il contesto e il contorno; successivamente questa narrazione lascerà il passo ad un’analisi profonda, e claustrofobica in un certo tal senso, della condizione umana portata in scena. Utile allo scopo è la variegata schiera di personaggi mostrati nell’arco delle stagioni. Relativamente all’analisi sociale, Bojack Horseman, in quest’ultima stagione, ha esplorato in particolar modo il concetto di famiglia, calando ogni suo personaggio all’interno di essa e vedendo come gli stessi riuscissero ad adattarsi e ad amalgamarsi al concetto stesso. Tutto ciò non fa altro che dimostrare la bravura dei veri maghi di Oz dietro questo prodotto Netflix: sceneggiatura e regia. Entrambi i comparti sono riusciti a decidere una tematica funzionale al carattere narrativo della serie, a calarlo (non forzatamente) nella struttura della stagione e a sfruttarlo a dovere per far evolvere (o involvere, a seconda dal personaggio) un determinato character. Sono questi elementi e funzionalità che in tante altre serie tv (non animate) raramente vengono presi in considerazioni durante la strutturazione della storia; tutto ciò riporta quindi a sottolineare come sia oltremodo sbagliato definire ed etichettare Bojack Horseman come mera serie animata.
Il concetto di famiglia e la caratterizzazione dei personaggi in scena attorno ad essa portano la serie verso un nuovo step di narrativa sociale: la speranza di non rimanere soli. Inconsciamente, per qualsiasi persona, il pensiero della solitudine perpetua rappresenta un incubo. Si potrebbe discutere giorno e notte relativamente all’utilità sociale di saper stare da soli, per poter stare poi successivamente bene con gli altri, ma la scelta consapevole di voler stare da soli è un fattore che semplicemente non esiste, in quanto esseri umani coscienziosi desiderosi di condividere ed instaurare con il prossimo un determinato tipo di rapporto (sia esso amicizia o amore). Ecco quindi che i personaggi in scena ripropongono la loro estrema umanità nel dimostrare come tutti, prima o poi, ad un certo punto della propria vita, abbiano bisogno di una persona cara alla quale rivolgersi. Tutti, nessuno escluso. L’incubo, come si diceva, è quello di rimanere da soli, autoesiliati a causa di spregiudicati comportamenti passati, si pensi per esempio allo stesso Bojack. Concatenato a ciò, la speranza di poter trovare un’anima gemella. Non obbligatoriamente legata al campo dell’amore, ma a quello dell’affetto in generale.
Il cavallo che volava come uno struzzo
a cura di Simone Pozzoli
“In questo mondo bisogna essere matti per non impazzire. È la scarna filosofia di Ken Harrel, un tempo amico di Dylan, oggi perso nella sua follia più nera. È tornato nella notte per chiedere all’indagatore di accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, un lungo pellegrinaggio dentro i piccoli orrori del vivere, verso un’isola impossibile. Dove anche uno struzzo può spiegare le sue ali e volare via…” – Il volo dello struzzo, Dylan Dog n° 109
Non importa di che tipologia di media/formato si parli, in quanto branche della macro-materia “arte”, qualsiasi opera, letteraria, cinematografica, televisiva, ecc. sarà sempre e comunque soggetta all’implacabile principio de: “L’arte va interpretata”. Siccome non tutti hanno la pazienza o la sensibilità necessaria ad analizzare un’opera in tutti i suoi dettagli, andando magari nel profondo e scoprendo i perché nascosti dietro precise scelte caratteriali/narrative – che sono, per la maggior parte, il tentativo di veicolare un pensiero – spesso ci si appiglia ai più semplicistici luoghi comuni. Per fare il più classico degli esempi: “i cartoni animati sono per bambini, i libri invece, sono roba per menti eccelse”. Eccelsissime, certo. Tutto ciò per dire che, anche Bojack Horseman – benché sia un’opera molto diretta e spesso senza il minimo riguardo verso lo spettatore – necessita di una bella dose di interpretazione, attuabile solamente al termine di una prima traumatica visione.
Ragionando a mente fredda sull’opera di Waksberg, la più celebre serie animata Netflix può essere considerata come una delle più grandi opere pedagogiche moderne. Realizzata, per giunta, come un cartone animato, proprio per sfruttare questa “trappola” del luogo comune, sfidando la concezione secondo la quale i cartoni siano pura e semplice “roba per bambini”. I più moderni insegnamenti della pedagogia insegnano che ogni comportamento dell’essere umano avviene sempre in seguito ad una motivazione specifica generata da tutta una serie di contesti e realtà a cui l’individuo è esposto. La scuola, la famiglia, gli amici, i conoscenti, i colleghi di lavoro, i cambiamenti del corpo e tutte le fasi evolutive che l’essere umano affronta sono contesti e realtà che formano la persona, forgiando inoltre quella che è una materia in continuo studio ed evoluzione – il termine “pedagogia” deriva dal greco “paidos” (bambino) e “ago” (guidare, condurre, accompagnare).
Nonostante l’abbia fatto anche nelle stagioni precedenti, in questa quarta stagione si è sentito più impegno verso l’obiettivo di guidare-condurre-accompagnare lo spettatore verso un mondo fatto di spettri emotivi molto complessi, legati assieme da una moltitudine di paradossi e da un caleidoscopio di traumi ed esperienze pregresse che si sono trasformati – ad una certa età – in comportamenti di default. Tanto per fare un esempio, si prenda in esame l’episodio che racconta i perché nascosti dietro al carattere e alla malattia della madre di Bojack. Se prima si stava totalmente dalla parte del protagonista, dopo aver scoperto la storia di Henrietta lo spettatore diventa immediatamente super partes, e non di proposito, bensì per una reazione del tutto inconscia. Entrambi si trovano nel torto e nella ragione e quello che lo spettatore prova, le emozioni che lo trafiggono, sono per lo più pena e compassione, quel sentimento che Luigi Pirandello definiva come “sentimento del contrario”, in grado di manifestarsi una volta svelati i motivi dietro i comportamenti apparentemente eccentrici o miseri delle persone.
BoJack rispiega, attraverso i canoni moderni della serialità televisiva, non tanto l’importanza dell’uomo quanto l’importanza di tenere a mente il fatto che ogni singolo individuo di questo mondo (di merda) ha una storia alle spalle. Una storia che va rispettata per evitare di cadere in una spirale di dolore profondo ed inutile che genera nient’altro che allontanante ermetismo in grado di condurre verso una masochistica solitudine. E sembrerà strano leggere queste cose riguardo una serie in cui le classiche “parole che si pensano, ma non si vorrebbero mai dire” sono protagoniste assolute, una serie che sembra valorizzare prima di ogni altra cosa i sentimenti negativi e le egoistiche cattiverie degli esseri umani. Ed è proprio questo il vero scopo del cartoon: offrire allo spettatore un ambiente protetto in cui poter riconoscere i problemi insiti nel proprio animo, siano essi da sistemare oppure causa di precedenti sofferenze, così da poterli esorcizzare, facendo di Bojack Horseman il capro espiatorio perfetto. Pertanto, la serie non esiste per fare del male o incitare certi comportamenti, ma per veicolare una reazione che spinga alla manifestazione dell’effetto contrario; non esiste per sottolineare quant’è bello essere degli “stupidi pezzi di merda”, ma per spingere tutti a fare il contrario di ciò che fa lui. Infatti, al termine della visione, l’unica cosa di cui si è certi è che nessuno vorrebbe essere come Bojack. Infatti, BoJack Horseman, ad oggi, è l’unica opera che invece di rappresentare una fuga dalla realtà, è quella che più ti spinge verso di essa, incoraggiandoti ad abbracciarla e valorizzarla, invogliandoti a sistemarla per evitare di diventare come il protagonista. Nessuno vorrebbe prendere il suo posto o vivere nel suo universo narrativo perché, chiunque, non vorrà mai riconoscersi in uno “stupido pezzo di merda”.
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