Quando, verso la fine di agosto del 2016, un gruppo di recensori ha deciso di occuparsi di Designated Survivor, questo show era considerato come uno dei più attesi dell’anno, sia per la presenza di Kiefer Sutherland, che per il concept, senza dubbio intrigante. Certo, c’erano alcune perplessità, la maggiore delle quali era rappresentata dal network: ad esclusione dell’ottimo American Crime e della prima stagione di How To Get Away With Murder, l’ABC non si è certo distinta, negli ultimi anni, per la qualità dei suoi drama; non vanno dimenticati, inoltre, i timori relativi alla tenuta sul medio-lungo periodo dello show, una volta conclusasi la parte collegata con l’attentato al Campidoglio. In ogni caso, considerando anche i moltissimi scenari utilizzabili da una serie tv con protagonista il Presidente degli Stati Uniti, nessuno, neanche il più pessimista, si sarebbe aspettato che, giunti al trentatreesimo episodio, lo show sarebbe diventato poco più di un banale e prevedibile procedurale.
“50 years ago, NASA’s budget was 4. 5% of the federal budget. Now it’s 0. 5%. That’s a 90% reduction. The demise of our space program.
It’s a national tragedy.”
Come scritto in precedenza, esaurito il filone dell’attentato, gli autori avevano a loro disposizione una quantità enorme di spunti da sfruttare per costruire nuove storyline avvincenti e attuali. Ad onor del vero, va detto che ciò, almeno in parte, è stato fatto: in tempi non sospetti, infatti, abbiamo inserito i casi del giorno (ad esempio, quello della Turchia e quello delle statue confederate) nella lista, alquanto povera, di aspetti positivi della prima parte di questa stagione. Giunti al dodicesimo episodio, si può affermare che questa caratteristica si sia mantenuta costantemente su buoni livelli. Abbastanza difficile, se non impossibile, trovare una puntata all’inizio della quale, dopo aver capito l’argomento che si vuole affrontare, si sia pensato che quel tema non fosse affatto interessante, o privo di potenzialità. Allo stesso tempo, però, è ancora più difficile, al termine delle varie puntate, non pensare di aver assistito, per l’ennesima volta, a un’occasione persa.
Quali sono le ragioni di questo cambiamento di sentimenti? Innanzitutto, non si può non annoverare la scelta di rendere Designated Survivor uno show incentrato su una forte trama verticale, ossia su casi i cui archi narrativi si sviluppano esclusivamente all’interno di un singolo episodio. Questa strategia era popolare anni fa per le serie crime, ma ad oggi nessun prodotto di qualità la utilizza (l’unica grande eccezione è rappresentata da Sherlock, ma lo show di Moffat e Gatiss presenta caratteristiche abbastanza diverse rispetto al classico show statunitense, a partire dalla durata. è ovvio che, in oltre 80 minuti, si riescano a sviluppare in modo egregio i casi, le relative indagini e le sottotrame, cosa molto più difficile quando si hanno solo 40 minuti a disposizione); se ciò è vero per i crime, lo è molto di più per una serie tv a sfondo politico: senza girarci molto intorno, la politica, soprattutto quella statunitense, è incredibilmente complessa e, per questo motivo, una sua eccessiva semplificazione farebbe perdere molto mordente e credibilità al prodotto televisivo. Purtroppo, questo processo di banalizzazione, soprattutto nella risoluzione, di fenomeni articolati è stata una costante in questa stagione (e nella seconda parte della prima), e rappresenta uno degli aspetti più negativi dello show: avere tra le mani dei concept davvero promettenti e risolverli in così poco tempo, peraltro spesso e volentieri con il lieto fine (l’unica eccezione è rappresentata dal suicidio del marinaio in “Two Ships“; in quel caso, però, l’apprezzabile decisione di puntare su un finale diverso è stata offuscata da una quantità di difetti maggiore del solito).
“You sit in that chair, you have an obligation, not just to the American people, but to the office, to every president who sat there before you and will sit there after you. Your judgment is off, Tom. And I can’t let you implode I won’t.”
Prendendo ad esempio quanto accaduto in “The Final Frontier”, gli elementi per la creazione di un’ottima storyline c’erano tutti: Russia e Stati Uniti nello spazio (evento che non può non riportare alla mente alcuni tra gli eventi più significativi della seconda metà del ‘900), un attacco hacker e la necessità, per i due nemici, di cooperare con gli storici nemici, il ritorno (abbastanza da deus-ex-machina, ma su questo aspetto torneremo più tardi). Per garantire uno sviluppo degno a tutto ciò, 40 minuti non sono ovviamente sufficienti, sarebbero servite almeno un paio di puntate, se non di più (discorso applicabile anche a gran parte dei casi affrontati in questa stagione). Come spesso accade, la parte più debole è rappresentata dal modo in cui si riesce a districare la matassa e a risolvere la situazione: in questo caso, Hannah entra in contatto, in dieci minuti, con due degli hacker migliori al mondo; inoltre, uno di loro è russo e conosce Damian, che è al servizio dei russi, ma per qualche motivo non ha aiutato il Cremlino quando l’agenzia Roscosmos è stata vittima di un hackeraggio. Se la conclusione del filone più prettamente investigativo è lontano dall’essere soddisfacente, quella del filone politico non si discosta molto: anche stavolta, si parte da una buona intuizione, ossia Moss che, senza consultare Kirkman, scende a compromessi coi russi, e la si utilizza in modo pessimo. Di tutte le cose che i russi avrebbero potuto chiedere, perché proprio l’insabbiamento dell’indagine su Icarus, dato che la società fantasma è stata creata ai tempi della Guerra Fredda, la quale è finita già da qualche decennio?
A risollevare parzialmente le sorti di questa storyline ci ha pensato la rottura, per il momento definitiva, tra Moss e Kirkman, se non altro perché qualcuno ha finalmente avuto il coraggio di far notare al Presidente il suo atteggiamento debole, indeciso ed attendista. Sul fronte della personalità di Kirkman, va sottolineato anche il cliffhanger finale, il quale potrebbe finalmente dare una svolta alla narrazione: sin dall’inizio, infatti, il character di Sutherland è stato visto dall’opinione pubblica come un uomo buono, gentile e pacifico. Il video potrebbe cambiare tutto ciò, facendo nascere nuovi problemi.
Infine, volendo sorvolare sui tantissimi minuti dedicati ai ricordi d’infanzia di Lyor (pare sia impossibile liberarsi della sottotrama comica), un cenno ad Hannah e Damian. Il suo ritorno è molto conveniente, perché permette agli eventi di mettersi in moto. Se su questo fatto si potrebbe chiudere un occhio, lo stesso non si può fare di fronte all’apparente conclusione di questa storyline. La speranza è che la spia britannica riesca ad evadere e a tornare ad essere, in un modo o nell’altro, protagonista dello show, perché sarebbe folle far tornare in scena l’unico appiglio alla trama orizzontale, nonché personaggio di una certa rilevanza, e farlo scomparire di nuovo in breve tempo.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Dopo una puntata che sembrava regalare qualche spiraglio di ottimismo agli spettatori (e ai recensori), con “The Final Frontier” Designated Survivor torna alla sua solita mediocrità. Con la speranza di una svolta, decidiamo di dare l’ennesima sufficienza stiracchiata, come si confà alle serie tv mediocri.
Grief 2×11 | 3.72 milioni – 0.6 rating |
The last frontier 2×12 | 3.60 milioni – 0.6 rating |
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Romano, studente di scienze politiche, appassionato di serie tv crime. Più il mistero è intricato, meglio è. Cerco di dimenticare di essere anche tifoso della Roma.