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Le menti dietro Netflix sembrano ormai voler puntare sempre più in alto, consci del fatto che in quest’era di grande splendore per le serie televisive esiste una concorrenza spietata da affrontare a suon di milioni e di idee che possano avere larga presa sul pubblico. Fino a qualche anno fa il colosso di Los Gatos non aveva praticamente nessun concorrente degno di nota nel settore dello streaming, ma poi sono arrivati Amazon e Hulu e a breve lo faranno anche Apple e Disney, e tutte queste piattaforme hanno tra le mani licenze che potrebbero fruttare un sacco in termini di pubblico e di critica: Il Signore degli Anelli, Conan, i cicli della Cultura e della Fondazione, Star Wars… insomma, alla cara vecchia Netflix, che sta per concludere House of Cards e cancella sempre più prodotti, potrebbero non bastare Stranger Things e 13 Reasons Why per tener testa a questi sfidanti. Sicuramente non basterà nemmeno Lost in Space, ma l’impressione dietro questo nuovo progetto è che Netflix l’abbia realizzato cercando di dar vita alla serie perfetta (economicamente parlando), puntando da un lato sull’usato sicuro e dall’altro confezionando uno show per tutta la famiglia, di quelli che in teoria dovrebbero soddisfare un bacino d’utenza più grande del solito e di conseguenza portare molte più visualizzazioni.
Si parla di “usato sicuro” perché Lost in Space è un nome che negli USA un po’ tutti conoscono, anche chi non ha mai visto l’originale serie del 1965 o il film remake di Stephen Hopkins; e i nomi noti, si sa, attirano pubblico anche solo per semplice curiosità. La vecchia serie, ovviamente, era figlia di un panorama televisivo molto diverso da quello attuale, più ingenuo, più buonista, con un pubblico meno esigente: erano gli anni in cui la televisione era decisamente la “sorella più povera del cinema”, in cui nessun grande attore di Hollywood o nessun regista affermato si sarebbero degnati di partecipare a una serie e in cui Star Trek rappresentava l’unico vero tentativo di trattare tematiche scomode o anche solo più complesse rispetto al banale intrattenimento. Da allora le cose sono molto cambiate, ci sono state Twin Peaks, The Sopranos, The Wire, Mad Men, Breaking Bad e Black Mirror che hanno rivoluzionato la situazione, la televisione è diventata un media di tutto rispetto che attira persino registi del calibro di Scorsese e attori come Hopkins e anzi mostra una vitalità e uno sperimentalismo che nel cinema si fatica sempre più a trovare; e allora anche Lost in Space deve adeguarsi a questi cambiamenti, non potendo riproporre nel 2018 la solita famiglia idilliaca e i soliti buoni sentimenti.
L’incipit è lo stesso della serie originale: i Robinson sono in viaggio per colonizzare un nuovo pianeta, in fuga da una Terra sempre più sovrappopolata e invivibile, ma un incidente li costringe ad atterrare su un mondo sconosciuto, dove devono affrontare fin da subito problemi di ogni sorta. Il continuo inserimento di flashback nel corso del pilot (e presumibilmente anche nei prossimi episodi), se da un lato rende l’intreccio meno lineare del solito e potrebbe scontentare chi non è abituato a narrazioni di questo tipo, dall’altro riesce poco per volta a smontare quell’immagine della famigliola felice e perfetta che le scene iniziali ci propinano. Lungi dall’essere una coppia di coniugi senza problemi, John e Maureen sono in realtà sull’orlo del divorzio, a causa delle continue e prolungate assenze lavorative di lui, e si sono tuffati nell’impresa spaziale per cercare di tenere unito il nucleo familiare. John anzi sembra un padre poco presente per i figli, affettuoso e disposto a tutto pur di salvarli ma con una scarsa conoscenza delle loro passioni e dei loro interessi, come dimostra un dialogo col figlio più piccolo, William.
E a proposito di quest’ultimo, la sua partecipazione al progetto è stata resa possibile da un’alterazione del risultato del test da parte della madre, un segreto che sicuramente avrà modo di venire a galla e di sconvolgere i già delicati equilibri dei Robinson. Per adattare la serie al nuovo millennio, inoltre, sono stati inseriti un paio di vistosi cambiamenti riguardanti l’etnia e il sesso di due personaggi: da un lato la primogenita dei Robinson, Judy, è mulatta, quindi adottata o forse frutto di un precedente matrimonio di uno dei due coniugi; dall’altro il personaggio del dottor Smith, che nella serie del 1965 fungeva da antagonista, è interpretato da una donna. Al momento è difficile capire se si tratta di mere concessioni all’imperante politically correctness o se questi cambiamenti apriranno nuovi scenari, ma si tratta, soprattutto nel caso del primo, di elementi pieni di potenziale narrativo e si spera che vengano sfruttati a dovere.
Visivamente parlando, poi, si nota l’impegno nel confezionare un prodotto che sia una gioia per gli occhi, con paesaggi mozzafiato, CGI pregevole e dettagliata, scene ambientate nello spazio degne quasi di un film. Del resto, di fronte alla concorrenza di space opera del calibro di Star Trek: Discovery e The Expanse bisogna alzare il tiro se non si vogliono rischiare confronti negativi. Basta guardare il robot alieno e la fluidità dei suoi movimenti per rendersi conto di essere di fronte a una televisione che assottiglia sempre più il divario tecnico col cinema.
Si parla di “usato sicuro” perché Lost in Space è un nome che negli USA un po’ tutti conoscono, anche chi non ha mai visto l’originale serie del 1965 o il film remake di Stephen Hopkins; e i nomi noti, si sa, attirano pubblico anche solo per semplice curiosità. La vecchia serie, ovviamente, era figlia di un panorama televisivo molto diverso da quello attuale, più ingenuo, più buonista, con un pubblico meno esigente: erano gli anni in cui la televisione era decisamente la “sorella più povera del cinema”, in cui nessun grande attore di Hollywood o nessun regista affermato si sarebbero degnati di partecipare a una serie e in cui Star Trek rappresentava l’unico vero tentativo di trattare tematiche scomode o anche solo più complesse rispetto al banale intrattenimento. Da allora le cose sono molto cambiate, ci sono state Twin Peaks, The Sopranos, The Wire, Mad Men, Breaking Bad e Black Mirror che hanno rivoluzionato la situazione, la televisione è diventata un media di tutto rispetto che attira persino registi del calibro di Scorsese e attori come Hopkins e anzi mostra una vitalità e uno sperimentalismo che nel cinema si fatica sempre più a trovare; e allora anche Lost in Space deve adeguarsi a questi cambiamenti, non potendo riproporre nel 2018 la solita famiglia idilliaca e i soliti buoni sentimenti.
L’incipit è lo stesso della serie originale: i Robinson sono in viaggio per colonizzare un nuovo pianeta, in fuga da una Terra sempre più sovrappopolata e invivibile, ma un incidente li costringe ad atterrare su un mondo sconosciuto, dove devono affrontare fin da subito problemi di ogni sorta. Il continuo inserimento di flashback nel corso del pilot (e presumibilmente anche nei prossimi episodi), se da un lato rende l’intreccio meno lineare del solito e potrebbe scontentare chi non è abituato a narrazioni di questo tipo, dall’altro riesce poco per volta a smontare quell’immagine della famigliola felice e perfetta che le scene iniziali ci propinano. Lungi dall’essere una coppia di coniugi senza problemi, John e Maureen sono in realtà sull’orlo del divorzio, a causa delle continue e prolungate assenze lavorative di lui, e si sono tuffati nell’impresa spaziale per cercare di tenere unito il nucleo familiare. John anzi sembra un padre poco presente per i figli, affettuoso e disposto a tutto pur di salvarli ma con una scarsa conoscenza delle loro passioni e dei loro interessi, come dimostra un dialogo col figlio più piccolo, William.
E a proposito di quest’ultimo, la sua partecipazione al progetto è stata resa possibile da un’alterazione del risultato del test da parte della madre, un segreto che sicuramente avrà modo di venire a galla e di sconvolgere i già delicati equilibri dei Robinson. Per adattare la serie al nuovo millennio, inoltre, sono stati inseriti un paio di vistosi cambiamenti riguardanti l’etnia e il sesso di due personaggi: da un lato la primogenita dei Robinson, Judy, è mulatta, quindi adottata o forse frutto di un precedente matrimonio di uno dei due coniugi; dall’altro il personaggio del dottor Smith, che nella serie del 1965 fungeva da antagonista, è interpretato da una donna. Al momento è difficile capire se si tratta di mere concessioni all’imperante politically correctness o se questi cambiamenti apriranno nuovi scenari, ma si tratta, soprattutto nel caso del primo, di elementi pieni di potenziale narrativo e si spera che vengano sfruttati a dovere.
Visivamente parlando, poi, si nota l’impegno nel confezionare un prodotto che sia una gioia per gli occhi, con paesaggi mozzafiato, CGI pregevole e dettagliata, scene ambientate nello spazio degne quasi di un film. Del resto, di fronte alla concorrenza di space opera del calibro di Star Trek: Discovery e The Expanse bisogna alzare il tiro se non si vogliono rischiare confronti negativi. Basta guardare il robot alieno e la fluidità dei suoi movimenti per rendersi conto di essere di fronte a una televisione che assottiglia sempre più il divario tecnico col cinema.
Il vero problema di Lost in Space deriva, paradossalmente, dalla sua forza. La serie vuole essere un prodotto per famiglie, che vada incontro ai gusti di tutti: dei più piccoli che si possono identificare nel vivace e intelligente William e apprezzare il lato avventuroso e fantastico della serie; degli adolescenti che troveranno più vicine a loro Penny e Judy; delle mamme e dei papà, che potrebbero rispecchiarsi più facilmente nei genitori; degli amanti del mistery, che qui è un elemento appena abbozzato ma di sicuro determinante nel prosieguo; degli appassionati di sci-fi. Eppure, proprio per soddisfare i gusti e i desideri di questo pubblico così eterogeneo e variegato, Lost in Space rischia fortemente di non soddisfare appieno nessuno: non è abbastanza infantile per i piccini, non è abbastanza matura e seria per gli adulti, non è abbastanza teen per gli adolescenti; senza dimenticare il fatto che i family drama, salvo rari casi, finiscono sempre per riproporre la solita solfa e sulla base del solo pilot è difficile capire se Lost in Space sarà qualcosa di diverso o una semplice riproposizione di un copione già visto in Falling Skies o Colony. Insomma, sembra proprio che Netflix abbia sfornato l’ennesima opera che è brava su tanti fronti ma non eccelle in nessuno specifico.
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Lost in Space è un prodotto per famiglie, per tutti, e questa potrebbe essere la sua forza così come la sua debolezza. Di sicuro non è la nuova House of Cards e di sicuro non riscriverà la storia della science-fiction televisiva.
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.