“They want to kill my son. That devil… that devil wants to kill my son. You gonna take an ad out about killing my son. They gonna have to come for me first. Better yet, I’ll come for him”.
When They See Us, la nuova miniserie Netflix diretta da Ava DuVernay, prosegue con un secondo episodio che ferisce ancora più del precedente. La narrazione continua sei mesi dopo gli avvenimenti del pilot, quando i cinque di Central Park incontrano i rispettivi avvocati difensori ed affrontano, anche se sarebbe meglio dire subiscono, un processo in un’aula di tribunale che ha tutta l’aria di un vero e proprio patibolo. Non c’è nulla di giusto, nulla di equo: “In God We Trust” recita il motto degli Stati Uniti d’America, che campeggia anche dietro alla seduta del giudice, ma più che l’emblema di una nazione questa scritta rappresenta l’ipocrisia e uno schiaffo in faccia alla moralità. La costruzione della puntata, infatti, ha lo scopo di evidenziare non solo la lapalissiana falla di tutta l’indagine portata avanti dalla Polizia di New York, capitanata da Linda Fairstein, ma soprattutto la consapevolezza di chi ha puntato il dito contro i cinque adolescenti e, lavandosene le mani, non si è fermato davanti a nulla per farli condannare, nemmeno davanti all’evidenza della loro innocenza.
Sembra incredibile che la sola strategia della pubblica accusa sia stata quella di presentare i filmati delle confessioni dei cinque ragazzini, come se le loro parole, sussurrate a denti stretti tra molti intoppi e tentennamenti, valessero più di prove scientifiche e, quindi, inconfutabili. Si viene a sapere, difatti, che la pubblica accusa non possiede nemmeno un riscontro di DNA tra la vittima, la scena del crimine e i ragazzini; addirittura lo sperma trovato in un calzino (l’unica prova raccolta sul luogo dello stupro) non corrisponde a nessuno di loro. Nemmeno questo ostacolo, questa montagna insormontabile, sembra far dubitare l’accusa: non si tratta, infatti, di un processo per avere giustizia, ma di una vera caccia alle streghe da parte di una città stanca dell’escalation di aggressioni e di un dipartimento di polizia pressato dall’opinione pubblica e politica.
L’unica colpa dei cinque ragazzini non è stata solo quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma anche di essere neri. Vorremmo ci fossero altre spiegazioni dietro questo errore giudiziario ma, purtroppo, non ce ne sono. Un gigantesco ed immorale pregiudizio razziale. Nient’altro. Perché è più facile prendersela con i più deboli, coloro che provengono da una realtà più disagiata, ma che possiedono un’umanità e una dignità che farebbero vergognare qualsiasi uomo bianco tronfio e imbellettato. Torna subito alla mente la tragica storia di Rubin Carter, noto con il soprannome “Hurricane”: un pugile statunitense che venne ingiustamente accusato di triplice omicidio nel 1966 e per il quale fu condannato a tre ergastoli solo per il colore della sua pelle. Bob Dylan scrisse in suo onore la bellissima e struggente “Hurricane”, mentre Denzel Washington lo impersonò magistralmente nel film “The Hurricane” del 1999. Anche per i cinque di Central Park è avvenuta una mobilitazione all’interno di Harlem e della stessa New York per cercare di spodestare l’accusa e smascherare le reali motivazioni dietro al processo.
Avvocato Joseph: “Elizabeth.”
Procuratore Lederer: “Michael.”
Avvocato Joseph: “Did you call me here to apologize?”
Procuratore Lederer: “Apologize for what?”
Avvocato Joseph: “You saying that the DNA evidence was inconclusive. That’s not playing fair.”
Procuratore Lederer: “Fair? What’s that word mean, anyway?”
Avvocato Joseph: “I don’t know. Something to do with justice, I think.”
Procuratore Lederer: “It’s no longer about justice, Counselor. It’s about politics. And politics is about survival. And there is nothing fair about survival.”
L’aula di tribunale dove Antron, Kevin, Raymond, Yusef e Korey vengono giudicati ha tutte le fattezze di una trappola mortale: la fotografia è cupa e soffocante, come se la stanza si stesse chiudendo lentamente per schiacciare i cinque giovani dentro la sua morsa; il filtro usato è volutamente freddo, con una spiccata predilezione per l’azzurro glaciale e la scala di grigi, per intensificare il senso di oppressione e l’impossibilità di trovare una via di uscita.
Il culmine della puntata viene raggiunto nel confronto, sia in tribunale che fuori dalla corte, tra l’avvocato di Antron McCray, Mickey Joseph (un Joshua Jackson al top della forma) e il procuratore distrettuale Elizabeth Lederer (Vera Farmiga). Il climax crescente durante il contro interrogatorio tra la difesa e il rappresentante della scientifica che ha analizzato il campione di sperma, sfocia in un gioco di sguardi tra Mickey ed Elizabeth, mentre il resto del pubblico in aula grida all’innocenza e allo scandalo. Ma non servirà a niente, come rimarcato dalla Lederer poco dopo, non si tratta più di giustizia; anzi, forse non si è mai trattato di questo. La giustizia non conta, Patricia Meili, in fondo, non conta, i cinque ragazzini contano ancora meno. L’importante è sopravvivere nell’arena dell’opinione pubblica e salvare la faccia mentre tutta la nazione sta guardando e scalpita per azzannare il colpevole, chiunque esso sia.
Così, la giuria, New York e gli Stati Uniti interi, guardando dall’altra parte, sputano in faccia agli adolescenti una sentenza di colpevolezza, per denigrarli, schiacciarli sotto il peso dell’odio razziale e gettarli all’inferno.
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Dopo il secondo episodio risulta lampante l’importanza e il peso di questa miniserie. Sicuramente non si esagera nell’affermare che dovrebbe essere vista da tutti, indipendentemente dal credo politico o da come la si pensi sul mondo. La dignità e l’innocenza non hanno colore, non hanno razza, non hanno slogan, non hanno appartenenza e l’unica cosa che si può fare di fronte a questo episodio è sentirsi tutti egualmente sporchi e colpevoli, nonostante tutto.
Episode 1 1×01 | ND milioni – ND rating |
Episode 2 1×02 | ND milioni – ND rating |
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Se volete entrare nelle sue grazie, non dovete offendere: Buffy The Vampire Slayer, Harry Potter, la Juventus. In alternativa, offritele un Long Island. La prima Milf di Recenserie, ma guai a chiamarla mammina pancina.