“Escalabar… Escansala… Eschizzibu… Escansa…”
“Excalibur, imbecille!”
[SuperFantozzi, 1986]
Le storie su re Artù e sui cavalieri della Tavola Rotonda, nate in epoca medievale dalla commistione tra elementi mitologici pagani, motivi letterari e vaghi ricordi di eventi realmente accaduti deformati dalla lente della leggenda, sono da secoli patrimonio culturale dell’Occidente. Poemi epici, romanzi, album metal, videogiochi, cartoni animati, film e serie televisive hanno attinto a piene mani dalla materia bretone, sicché oggigiorno chi non conosce il giovane re che ha estratto la spada Escalabar Excalibur dalla roccia, o il vecchio e saggio mago Merlino, o l’infedele regina Ginevra, o il fedele Galvano, o i puri Bors, Percival e Galahad impegnati nella ricerca del Graal, o ancora la malvagia Morgana e suo figlio Mordred?
Negli ultimi decenni, i tentativi di riportare in vita la leggenda arturiana sul grande o piccolo schermo non sono mancati. Alcuni, come il film King Arthur e l’adattamento cinematografico del romanzo manfrediano L’ultima Legione, hanno cercato di storicizzare gli eventi, spogliandoli di tutta la loro patina fantastica e sovrannaturale e collocandoli nel periodo della caduta di Roma. Altri, come la serie della BBC Merlin o il recente film King Arthur: Legend Of The Sword, sono andati nella direzione diametralmente opposta, battendo le vie del fantasy più puro anche a costo di stravolgere il senso originario della leggenda. E poi c’è stata Camelot, serie del 2011 basata su una rilettura più torbida e cupa del ciclo bretone, che però non è andata oltre la prima stagione. La francese Kaamelott, invece, ha rappresentato un esperimento piuttosto interessante, una rilettura comica che però si rileva inaspettatamente ben riuscita e riesce anche, stagione dopo stagione, a farsi più seria e toccante. Tutta questa introduzione per far capire che Cursed, nuova serie Netflix tratta dall’omonimo romanzo illustrato di Frank Miller e Tom Wheeler, si colloca in una già ricca tradizione di adattamenti arturiani del XXI secolo, benché con questi abbia poco a che spartire.
È evidente, infatti, la volontà dell’opera di innovare a tutti i costi la leggenda plurisecolare, a cominciare dalla scelta di incentrare il racconto non più su Artù o su Merlino, ma su Nimue. E chi sarebbe costei? Nel ciclo bretone, a seconda delle versioni, è la Dama del Lago che dona ad Artù la spada Excalibur, colei che alleva Lancilotto, l’allieva e amante di Merlino che però a un certo punto decide di tradirlo rinchiudendolo in una prigione magica, o ancora l’essere sovrannaturale che porta Artù morente sull’isola di Avalon dopo la battaglia col figlio Mordred. Qui, invece, Nimue è una ragazza appartenente al popolo dei Fey, abitanti delle foreste guardati con disprezzo dagli altri uomini “civilizzati”. A darle volto e voce è chiamata Katherine Langford, star di 13 Reasons Why, scelta probabilmente più per la sua fama pregressa che per un’effettiva capacità attoriale. Come tutte le eroine moderne che si rispettano, Nimue è caparbia, determinata, ribelle nei confronti della società in cui vive e e dei valori che questa vorrebbe imporle: l’empatia con i tanti spettatori e spettatrici adolescenziali è assicurata.
Ma a differenza di questi ultimi, i cui massimi problemi solitamente sono la mancanza di like sotto i propri post o i brutti voti a scuola, Nimue si ritrova catapultata in un mondo troppo grande per lei nella maniera più traumatica (e anche un po’ stereotipata, bisogna essere sinceri) possibile: il suo villaggio è devastato dai Paladini Rossi, organizzazione paramilitare dietro cui si nasconde una rappresentazione fin troppo ostentata, ma non per questo meno efficace, dei fanatismi e delle crudeltà commesse dalla religione cristiana e, in generale, da qualsiasi culto sufficientemente potente e poco tollerante. Praticamente la stessa trama di decine e decine di fantasy, compresa quell’immonda schifezza televisiva di The Outpost, ma è un po’ tutto l’impianto di Cursed a presentarsi ricco di déjà-vu e topoi della letteratura fantasy pigramente svolti, senza la minima volontà di innovare.
Anche altri due capisaldi della leggenda arturiana, quali Artù e Merlino, sono oggetto di riletture potenzialmente interessanti. Il saggio mago della tradizione irrompe sulla scena con i tratti del genio sregolato, del folle e dell’ubriacone, ricordando in un certo qual modo il Merlino dell’originaria tradizione gallese, Myrddyn Wyllt. E questa volta il casting sembra azzeccatissimo, perché nessuno avrebbe potuto interpretare questo nuovo Merlino meglio dell’ex-Floki di Vikings, Gustaf Skarsgård. La sua rappresentazione cupa e oscura ben si sposa con i toni della narrazione, che vuole ammiccare ai teenager senza però rinunciare a tocchi di truculenza e secchiate di sangue, soprattutto nel finale.
Quanto ad Artù, sorprende e destabilizza vederlo nei panni di un mercenario figlio di nessuno e non ci vuole molto a capire anche i motivi dietro questa scelta: il giovincello che diventa re per grazia divina, estraendo una spada dalla roccia, è troppo poco catchy per il pubblico moderno, mentre un personaggio che si crea dal nulla e che combatte per ottenere la corona, con l’aiuto di Nimue (a proposito, è già palpabile la tensione sessual-sentimentale tra i due), è più nelle corde degli spettatori moderni. Due parole sul casting del personaggio: la scelta di Devon Terrell, famoso per aver interpretato un giovane Barack Obama nel film Barry, non ha niente a che fare coi recenti eventi statunitensi ma capita decisamente a fagiolo, in un momento in cui anche il mondo dello spettacolo si sta mettendo in discussione per quanto riguarda i ruoli e gli spazi concessi ad attori afroamericani. E sicuramente alimenterà anche qualche polemica sulla politically correctness, ma si sa: a Netflix il chiacchiericcio mediatico conviene sempre.
Menzione doverosa, infine, meritano gli effetti speciali e la CGI. Già con The Witcher si era capito che “Netflix” e “alti budget per le serie fantasy” sono due rette parallele destinate, per ora, a non incrociarsi, tuttavia con Cursed si tocca davvero il fondo, sfiorando livelli degni di un prodotto da rete generalista come The Outpost: basti guardare la scena finale dello scontro tra Nimue e i lupi, realizzati con una computer grafica agghiacciante che li rende scattosi, pupazzosi, con movenze innaturali, per nulla amalgamati con l’ambiente circostante. Qua e là si possono ammirare dei bei panorami e non manca qualche ripresa aerea, ma nel 2020 si tratta ormai della norma, non di un motivo di vanto. Ben più riuscite sono le transizioni animate tra una scena e l’altra che riprendono lo stile delle illustrazioni del romanzo originale e cercano di conferire alla serie una propria fisionomia estetica.
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.