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Nel mondo delle serie tv è spesso possibile analizzare una certa tendenza, da parte dei network, a presentare nello stesso periodo un certo numero di serie che hanno molte caratteristiche in comune. Un esempio lampante è rappresentato, lo scorso anno, da Timeless, Time After Time e Making History. Tutti e tre i prodotti (rispettivamente trasmessi da NBC, ABC e FOX) trattavano di viaggi nel tempo, e i primi due avevano molti altri aspetti in comune, come la caccia ad un criminale (nel caso di TAT niente di meno che Jack The Ripper).
In maniera piuttosto analoga, l’anno prossimo ci sarà un’invasione di nuovi show a carattere militare: NBC, infatti, ha annunciato la produzione di The Brave, CBS ha risposto con SEAL Team e perfino The CW (non proprio un network dal quale ci si aspetterebbe un military drama) non si è voluta far trovare impreparata, mettendo in cantiere Valor. Infine, la terza ondata di questi ultimi anni è stata rappresentata dalle serie ambientate negli anni ’70 e, in particolare, nello showbiz di quegli anni. Le produzioni erano, tra l’altro, attesissime e imponenti: da un lato Vinyl, serie HBO che aveva alle spalle i nomi di Terrence Winter, Martin Scorsese e Mick Jagger; dall’altro The Get Down, serie tv Netflix dal budget elevatissimo e che aveva a capo del progetto Baz Luhrmann. In entrambi i casi, come i nostri lettori sapranno fin troppo bene, le aspettative sono state in parte disattese: la qualità, infatti, era più che buona, ma non eccellente (e l’eccellenza era, abbastanza ragionevolmente, richiesta a due serie tv così ambiziose), le nomination scarne e la cancellazione quasi inevitabile. Ora, a distanza di qualche settimana dal mancato rinnovo di The Get Down, Showtime lancia una nuova serie ambientata in quell’epoca e nel mondo dello spettacolo; in questo caso, però, non si tratta di musica, ma di stand-up comedy e i leggendari late night show, che in quegli anni stavano diventando un fenomeno di culto.
Prima di entrare nel merito, è opportuno chiarire una cosa sin da subito: “I’m Dying Up Here” non ha il potenziale infinito delle altre due serie, né si porta dietro una produzione mastodontica e un hype smisurato. Ciò non vuol dire, però, che si tratti di uno show mediocre o senza possibilità di emergere dalla giungla di nuovi show che costantemente cercano di catturare la nostra attenzione. C’è da segnalare, innanzitutto una cosa: fino ad ora, tutte le serie che hanno trattato di stand up comedy erano prodotti molto particolari, in quanto seguivano la vita, più o meno reale, di personaggi veri come Louis CK o Pamela Adlon; in questo caso, invece, ci si trova di fronte ad un prodotto con personaggi totalmente fittizi (ad esclusione del mitico Johnny Carson, uno dei primi presentatori dei Late Night Shows) e ciò cambia totalmente ogni aspetto relativo alla costruzione dei personaggi. Inoltre, è bene tenere presente che non ci si debba aspettare di sentire soltanto monologhi di alto livello, pieni di comicità e spunti di riflessione: tutti i characters, infatti, lavorano in un locale dove la proprietaria, Goldie (interpretata da Melissa Leo, premio oscar nel 2011 nella categoria Miglior Attrice Non Protagonista per il film “The Fighter” di David O. Russell) dà l’opportunità ai giovani di mettere in mostra le loro abilità nell’ambito della stand up. Agli appassionati del genere queste parole potrebbero ricordare qualcosa: infatti, il Club è ispirato al Mitzi Shore, che fu la rampa di lancio per icone della comicità (e dei late show, in qualche caso) come Jay Leno, David Letterman, Robin Williams, Chevy Chase e Jim Carrey (che è anche produttore esecutivo di questa serie, insieme a David Flebotte, che è anche il creatore dello show, Christina Wayne e Michael Aguilar).
A questo punto, è facile immaginare il collegamento con Carson: i vari performer vengono attentamente seguiti dal network e i più talentuosi potrebbero addirittura essere ingaggiati ed arrivare a sedersi sull’ambita poltrona accanto al conduttore. Ovviamente, solo pochissimi ce l’hanno fatta, anzi, nell’ultimo periodo soltanto una persona ha compiuto quell’impresa: Clay Appuzzo (Sebastian Stan, che interpreta Bucky Barnes in molti film dell’universo Marvel), figura che sarà sempre presente nelle vicende di questa stagione e che conferisce alla serie un tocco crime: poche ore dopo il suo esordio, infatti, Appuzzo viene investito da un autobus, e pare che si sia suicidato.
In maniera piuttosto analoga, l’anno prossimo ci sarà un’invasione di nuovi show a carattere militare: NBC, infatti, ha annunciato la produzione di The Brave, CBS ha risposto con SEAL Team e perfino The CW (non proprio un network dal quale ci si aspetterebbe un military drama) non si è voluta far trovare impreparata, mettendo in cantiere Valor. Infine, la terza ondata di questi ultimi anni è stata rappresentata dalle serie ambientate negli anni ’70 e, in particolare, nello showbiz di quegli anni. Le produzioni erano, tra l’altro, attesissime e imponenti: da un lato Vinyl, serie HBO che aveva alle spalle i nomi di Terrence Winter, Martin Scorsese e Mick Jagger; dall’altro The Get Down, serie tv Netflix dal budget elevatissimo e che aveva a capo del progetto Baz Luhrmann. In entrambi i casi, come i nostri lettori sapranno fin troppo bene, le aspettative sono state in parte disattese: la qualità, infatti, era più che buona, ma non eccellente (e l’eccellenza era, abbastanza ragionevolmente, richiesta a due serie tv così ambiziose), le nomination scarne e la cancellazione quasi inevitabile. Ora, a distanza di qualche settimana dal mancato rinnovo di The Get Down, Showtime lancia una nuova serie ambientata in quell’epoca e nel mondo dello spettacolo; in questo caso, però, non si tratta di musica, ma di stand-up comedy e i leggendari late night show, che in quegli anni stavano diventando un fenomeno di culto.
Prima di entrare nel merito, è opportuno chiarire una cosa sin da subito: “I’m Dying Up Here” non ha il potenziale infinito delle altre due serie, né si porta dietro una produzione mastodontica e un hype smisurato. Ciò non vuol dire, però, che si tratti di uno show mediocre o senza possibilità di emergere dalla giungla di nuovi show che costantemente cercano di catturare la nostra attenzione. C’è da segnalare, innanzitutto una cosa: fino ad ora, tutte le serie che hanno trattato di stand up comedy erano prodotti molto particolari, in quanto seguivano la vita, più o meno reale, di personaggi veri come Louis CK o Pamela Adlon; in questo caso, invece, ci si trova di fronte ad un prodotto con personaggi totalmente fittizi (ad esclusione del mitico Johnny Carson, uno dei primi presentatori dei Late Night Shows) e ciò cambia totalmente ogni aspetto relativo alla costruzione dei personaggi. Inoltre, è bene tenere presente che non ci si debba aspettare di sentire soltanto monologhi di alto livello, pieni di comicità e spunti di riflessione: tutti i characters, infatti, lavorano in un locale dove la proprietaria, Goldie (interpretata da Melissa Leo, premio oscar nel 2011 nella categoria Miglior Attrice Non Protagonista per il film “The Fighter” di David O. Russell) dà l’opportunità ai giovani di mettere in mostra le loro abilità nell’ambito della stand up. Agli appassionati del genere queste parole potrebbero ricordare qualcosa: infatti, il Club è ispirato al Mitzi Shore, che fu la rampa di lancio per icone della comicità (e dei late show, in qualche caso) come Jay Leno, David Letterman, Robin Williams, Chevy Chase e Jim Carrey (che è anche produttore esecutivo di questa serie, insieme a David Flebotte, che è anche il creatore dello show, Christina Wayne e Michael Aguilar).
A questo punto, è facile immaginare il collegamento con Carson: i vari performer vengono attentamente seguiti dal network e i più talentuosi potrebbero addirittura essere ingaggiati ed arrivare a sedersi sull’ambita poltrona accanto al conduttore. Ovviamente, solo pochissimi ce l’hanno fatta, anzi, nell’ultimo periodo soltanto una persona ha compiuto quell’impresa: Clay Appuzzo (Sebastian Stan, che interpreta Bucky Barnes in molti film dell’universo Marvel), figura che sarà sempre presente nelle vicende di questa stagione e che conferisce alla serie un tocco crime: poche ore dopo il suo esordio, infatti, Appuzzo viene investito da un autobus, e pare che si sia suicidato.
“And you know what? You just want to sit there and sweep all his dick-ish qualities under the rug and and magically turn the silent asshole at the end of his name into a ‘There’ll never be another like him’, then go for it, but you’re gonna have to rewrite history with some other shithead.”
Questo evento non può che sconvolgere le persone che lo conoscevano (tutti i lavoratori del club) ed innescare una serie di reazioni. Quando una persona muore, incomincia sempre un involontario processo di parziale beatificazione da parte di amici e parenti. A tutto ciò sembra non partecipare soltanto Bill (interpretato da Andrew Santino, che ha nel curriculum Mixology e qualche comparsata) , che sembra avere particolarmente in antipatia il defunto. Questo comportamento ha comportato sin da subito dei rapporti molto tesi con Cassie (Ari Graynor, che ha avuto un ruolo ricorrente in “The Sopranos” e “Fringe“), ex fidanzata di Clay. A questi personaggi si aggiungono i giovani Eddie e Ron, venuti da Boston su invito di Clay (e che cercheranno anche loro di fare carriera), altri comici come Edgar, Sully ed Arnie; inoltre, c’è anche chi non ottiene la possibilità di esibirsi al club, come Adam, che cerca invano l’aiuto del suo manager Carl (interpretato da Alfred Molina, l’altro grande nome, oltre a quello della Leo, di questo cast).
L’assenza di un protagonista assoluto e la numerosità del cast principale rappresenta una delle sfide più grandi di “I’m Dying Up Here”: gestire una serie così corale è estremamente difficile, perché bisogna caratterizzare al meglio ogni personaggio, dargli la sua storyline, conferirgli unicità. Showtime ci è riuscita alla grandissima con “Shameless“, la speranza è che ripeta l’ottimo lavoro anche in questo caso. Fino ad ora, a spiccare è sicuramente stata Cassie, che cerca di farsi strada in un mondo dominato dagli uomini e sembra anche avere più talento della media; il suo monologo finale, infatti, racchiude l’essenza della stand-up: risate, momenti di riflessione e considerazioni molto amare. Questo discorso ci permette anche di chiudere il capitolo relativo alle aspettative nei confronti dei vari monologhi: il fatto che questa sia una serie che ha per protagonisti degli aspiranti comici non rende obbligatoria una qualità altissima degli spettacoli, anzi, la sconsiglia: si tratta, infatti, di persone disposte a fare di tutto pur di ottenere cinque minuti sul palco e, a volte, neanche su quello principale (come nel caso di Eddie e Ron). Sarebbe anacronistico, dunque, far recitare loro dei monologhi degni di Ricky Gervais, Bill Hicks e George Carlin. Perfino Clay, che è stato ammesso al tavolo dei grandi, non ha mostrato chissà quali capacità (come sottolineato giustamente da Bill), avendo sfruttato le sue origini italiane per usare qualche banale stereotipo come la mamma che ti riempie di cibo, la pasta e una gestualità esagerata. Quello a cui si assisterà, dunque, è una guerra tra poveri, nella quale ognuno cerca di ottenere un minimo di visibilità. Anche per questo motivo, è molto probabile che il clima di amicizia che c’è tra i vari personaggi possa presto venire meno.
Parlando delle performance attoriali, la sensazione è che il talento complessivo non sia il più elevato possibile. Tralasciando i due nomi famosi, sulle cui doti non ci sono dubbi, Ari Graynor, Michael Angarano (Eddie) ed Andrew Santino non sembrano così malvagi (il resto è molto anonimo), ma sono ben distanti dalla performance regalata, già dal pilot, dai vari attori di Shameless. Non si può neanche addurre come motivazione il fatto che siano semi-sconosciuti. Prima del pilot di Shameless, infatti, Jeremy Allen White e Cameron Monaghan (per citare le due più grandi rivelazioni) avevano nel curriculum solo qualche ruolo come comparse in un episodio o due di qualche serie, eppure sin da subito sono riusciti a catturare l’attenzione dello spettatore e della critica, riuscendo a non sfigurare contro un mostro sacro come William H. Macy. In ogni caso, si può tranquillamente sperare che le loro performance crescano col passare degli episodi, come successo in molti casi (basti pensare a Charlie Hunman in “Sons of Anarchy“).
Infine, va lodata la scelta di parlare di una delle controversie maggiori riguardo a questo tipo di comicità: si può ridere di tutto? La domanda la pone Guy Appuzzo, il padre di Clay, che è indignato per il fatto che il funerale del figlio fosse contraddistinto da aneddoti e battute. La questione è molto complessa: da un lato, il black humour (quello fatto bene) ha lo scopo di sdrammatizzare, non di offendere; allo stesso tempo, però, non tutti lo apprezzano, ognuno ha la propria sensibilità. Inoltre, c’è spesso il rischio che si possa tramutare in banali offese ed insulti. Sarà dunque molto interessante vedere che messaggio invierà la serie a questo proposito e, soprattutto, come lo argomenterà.
L’assenza di un protagonista assoluto e la numerosità del cast principale rappresenta una delle sfide più grandi di “I’m Dying Up Here”: gestire una serie così corale è estremamente difficile, perché bisogna caratterizzare al meglio ogni personaggio, dargli la sua storyline, conferirgli unicità. Showtime ci è riuscita alla grandissima con “Shameless“, la speranza è che ripeta l’ottimo lavoro anche in questo caso. Fino ad ora, a spiccare è sicuramente stata Cassie, che cerca di farsi strada in un mondo dominato dagli uomini e sembra anche avere più talento della media; il suo monologo finale, infatti, racchiude l’essenza della stand-up: risate, momenti di riflessione e considerazioni molto amare. Questo discorso ci permette anche di chiudere il capitolo relativo alle aspettative nei confronti dei vari monologhi: il fatto che questa sia una serie che ha per protagonisti degli aspiranti comici non rende obbligatoria una qualità altissima degli spettacoli, anzi, la sconsiglia: si tratta, infatti, di persone disposte a fare di tutto pur di ottenere cinque minuti sul palco e, a volte, neanche su quello principale (come nel caso di Eddie e Ron). Sarebbe anacronistico, dunque, far recitare loro dei monologhi degni di Ricky Gervais, Bill Hicks e George Carlin. Perfino Clay, che è stato ammesso al tavolo dei grandi, non ha mostrato chissà quali capacità (come sottolineato giustamente da Bill), avendo sfruttato le sue origini italiane per usare qualche banale stereotipo come la mamma che ti riempie di cibo, la pasta e una gestualità esagerata. Quello a cui si assisterà, dunque, è una guerra tra poveri, nella quale ognuno cerca di ottenere un minimo di visibilità. Anche per questo motivo, è molto probabile che il clima di amicizia che c’è tra i vari personaggi possa presto venire meno.
Parlando delle performance attoriali, la sensazione è che il talento complessivo non sia il più elevato possibile. Tralasciando i due nomi famosi, sulle cui doti non ci sono dubbi, Ari Graynor, Michael Angarano (Eddie) ed Andrew Santino non sembrano così malvagi (il resto è molto anonimo), ma sono ben distanti dalla performance regalata, già dal pilot, dai vari attori di Shameless. Non si può neanche addurre come motivazione il fatto che siano semi-sconosciuti. Prima del pilot di Shameless, infatti, Jeremy Allen White e Cameron Monaghan (per citare le due più grandi rivelazioni) avevano nel curriculum solo qualche ruolo come comparse in un episodio o due di qualche serie, eppure sin da subito sono riusciti a catturare l’attenzione dello spettatore e della critica, riuscendo a non sfigurare contro un mostro sacro come William H. Macy. In ogni caso, si può tranquillamente sperare che le loro performance crescano col passare degli episodi, come successo in molti casi (basti pensare a Charlie Hunman in “Sons of Anarchy“).
Infine, va lodata la scelta di parlare di una delle controversie maggiori riguardo a questo tipo di comicità: si può ridere di tutto? La domanda la pone Guy Appuzzo, il padre di Clay, che è indignato per il fatto che il funerale del figlio fosse contraddistinto da aneddoti e battute. La questione è molto complessa: da un lato, il black humour (quello fatto bene) ha lo scopo di sdrammatizzare, non di offendere; allo stesso tempo, però, non tutti lo apprezzano, ognuno ha la propria sensibilità. Inoltre, c’è spesso il rischio che si possa tramutare in banali offese ed insulti. Sarà dunque molto interessante vedere che messaggio invierà la serie a questo proposito e, soprattutto, come lo argomenterà.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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“I’m Dying Up Here” è un progetto non colossale, ma comunque ambizioso e pieno di potenzialità. La speranza è che possa mostrarle a pieno, visto che gli ascolti bassi fanno presagire una possibile cancellazione dopo una sola stagione. Nel frattempo, decidiamo di premiare la serie e regalarle un bel ringraziamento.
Pilot 1×01 | 0.17 milioni – 0.1 rating |
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Romano, studente di scienze politiche, appassionato di serie tv crime. Più il mistero è intricato, meglio è. Cerco di dimenticare di essere anche tifoso della Roma.