Interior Chinatown è prodotta da Taika Waititi, che dirige anche il primo episodio, e scritta da Charles Yu, autore del romanzo omonimo da cui è tratta e che è stato pubblicato nel 2020. È particolarmente apprezzabile che Yu abbia mantenuto un ruolo di guida creativa ricoprendo il duplice ruolo di showrunner e produttore esecutivo. Infatti, specialmente per la complessità insita in questa serie, la mano dietro la mente che ha partorito tutto questo può sicuramente impattare positivamente questo rischiosissimo adattamento.
E c’è da dire che questa continuità tra il romanzo e la serie si percepisce nella coerenza dei temi e nello stile che unisce ironia, riflessione sociale e un tocco surreale. Molto difficile da spiegare a parole, ma ben visibile in svariati momenti. La storia segue Willis Wu – interpretato da un ottimo Jimmy O. Yang (Silicon Valley) -, un cameriere di un ristorante di Chinatown con una vita monotona e un’ambizione ben definita: diventare più di una comparsa senza nome, qualcosa di memorabile.
Il debutto di Interior Chinatown si distingue per un’idea affascinante e complessa, ovvero esplorare la vita di un personaggio secondario all’interno di una serie procedurale fittizia chiamata Black & White (tra l’altro volutamente vagamente razzista visto che i due protagonisti sono un detective uomo di colore e una detective bionda, giusto per chiarire lo stereotipo).
“Dude, she’s clearly Korean. Know your Asians…“
UNA SERIE NELLA SERIE MA SENZA SAPERE CHE QUESTA SIA UNA SERIE
A questo punto uno potrebbe dire: “ok e quindi”?
Ecco, il fatto è che questo pilot, tra l’altro chiamato in maniera geniale “Generic Asian Man“ per enfatizzare sia la componente razziale che la poca importanza del character di Yang, è ricolmo di “metatestualità” e si prende anche il suo tempo per seminare indizi necessari allo spettatore per provare a capire cosa stia guardando. Quindi si rimarrà confusi se lo si guarda senza sapere nulla della trama o se si è visto il trailer, serve capire il contesto (come detto anche nella puntata del podcast di novembre).
La particolarità della serie risiede nella sua struttura metatestuale: Willis sembra è inconsapevole di essere intrappolato in un mondo che alterna momenti della “serie procedurale” – con luci drammatiche, bande nere cinematografiche e persino interruzioni pubblicitarie – a scorci della sua quotidianità ordinaria. Questo mix genera una sensazione di straniamento (specialmente se non si conosce la trama), visto che lo spettatore osserva il contrasto tra la vita da NPC di Willis e i riflettori che occasionalmente si accendono su di lui durante le indagini condotte dai protagonisti del procedurale.
“Some people are winners and some people are waiters. And some people are witnesses.”
UN PRIMO EPISODIO INTERESSANTE MA DIFFICILE DA DIGERIRE
Il primo episodio pone solide basi narrative introducendo Willis come testimone di un rapimento durante una faida tra gang a Chinatown, evento che lo porta a collaborare con la detective Lana Lee, interpretata da Chloe Bennet (Marvel’s Agents Of S.H.I.E.L.D.), che lo coinvolge in un’indagine che potrebbe finalmente portarlo al centro della scena. Tuttavia non è tanto questo il punto più importante di “Generic Asian Man“, perché Taika Waititi e Charles Yu sembrano più interessati a introdurre il concept della serie piuttosto che a sviluppare realmente una trama coinvolgente. Anche comprensibilmente vista la componente metatestuale del tutto.
L’idea di fondo è tanto brillante quanto difficile da trasporre su piccolo e grande schermo: trasformare una figura marginale in un protagonista e riflettere sulla condizione stessa dei personaggi “di sfondo” nella narrativa seriale. L’esecuzione iniziale risulta volutamente criptica con molti elementi, come la consapevolezza di Willis rispetto al suo ruolo o la natura della realtà in cui si muove, che restano volutamente nebulosi. La confusione sembra quasi è intenzionale per spingere lo spettatore a cercare indizi nelle scelte registiche e nei dettagli visivi. Come ad esempio i passaggi improvvisi tra realtà e fiction, o le dimensioni stesse della pellicola che variano a seconda che sia la realtà televisiva dello show nello show, o la realtà quando le macchine da presa non guardano Willis Wu.
Ciò detto, l’episodio fatica a mantenere un equilibrio tra la sua ambizione tematica e il coinvolgimento emotivo, ed è anche dovuto alla lentezza narrativa data dai 40 minuti del pilot (e anche delle future nove puntate). Una lentezza introduttiva che potrebbe alienare parte del pubblico, soprattutto se il concept non venisse sviluppato pienamente nei successivi episodi. La serie rischia infatti di scivolare in una ripetitività prevedibile, soprattutto se decidesse di focalizzarsi troppo sugli aspetti procedurali piuttosto che sull’evoluzione del protagonista. Tuttavia, dopo un solo episodio e con questa complessità alle spalle, è impossibile poter dire dove andrà a finire, e quindi è lecito concedere almeno un altro paio di episodi ad Interior Chinatown.
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Interior Chinatown si presenta come una scommessa coraggiosa: una riflessione originale sulla serialità e sull’identità. L’episodio pilota non è privo di difetti, ma la sua premessa offre un potenziale notevole, soprattutto se Charles Yu saprà trovare un equilibrio tra sperimentazione e chiarezza. Non ancora una rivelazione, ma certamente un esperimento che merita almeno una visione curiosa.
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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.