A metà di quella che si sta rivelando essere una grande stagione, dopo un periodo di fiacca e di ripetizioni, arriva finalmente il momento di cominciare ad affrontare le acque inesplorate nel percorso evolutivo che segna la vita dei nostri protagonisti. Quei territori che per diversi motivi ognuno di loro ha sempre cercato di sfuggire, nascondendosi dietro false ipocrisie.
Per raggiungere questo, si deve arrivare al proprio fatal flow, quella condizione personale ormai insopportabile che ci porta a rompere il nostro equilibrio interiore ormai logoro per raggiungerne uno nuovo, migliore, perché semplicemente più corrispondente a quello che siamo in quel momento.
A questa prima fase di presa di coscienza delle proprie condizioni, ne segue un’altra, molto più dura, dove sostanzialmente ci si chiede cosa si sente di meritare. Cosa farne di questa consapevolezza e finalmente affrontare la paura di poter perdere il controllo e andare verso l’ignoto.
Ed ecco allora che finalmente Virginia sembra rompere il muro di indifferenza che si era costruita intorno dopo la fine della sua storia con Dan.
Veder crollare intorno a sé ogni sua certezza tra cui, forse la più importante, l’aver perso il suo posto privilegiato accanto a Bill, quello nel suo cuore, la permette di parlare chiaramente, forse per la prima volta, di quello che prova alla persona che sa di amare nonostante tutto, senza più controllarsi e rischiando di poter essere abbandonata in favore di ritorno di fiamma tra Bill e Libby.
A questo punto la scrittura degli autori sembrerebbe optare per la ripetizione di un pattern ormai abusato di questa serie, cioè quello di dover compiere una scelta moralmente giusta da parte del protagonista, in questo caso simboleggiata da un patteggiamento al processo, per salvare le apparenze rispetto ad un possibile ricorso alla corte suprema.
Coraggiosamente stavolta però è il comportamento di Bill a stupire. Non nella scelta fatta, prevedibile anche alla luce delle conseguenze che potevano esserci sul loro lavoro, ma nelle motivazioni. Quel suo “l’ho fatto per me” nasconde la sua sempre più impellente necessità di dichiarare quello che sente, prova o semplicemente è: un uomo dominato dall’incessante conflitto tra la necessità di controllarsi e l’abbandonarsi totalmente alla passione.
Forse, per la prima volta, entrambi sembrerebbero aver raggiunto una piena consapevolezza di quello che sono e di essere in grado di affrontarlo insieme, liberi da costrizioni costruite principalmente dalla loro paure.
Chi può sentirsi veramente libera in questa situazione è Libby, probabilmente il personaggio che ha subito una lenta ma importante evoluzione. Già nello scorso episodio ha dimostrato come l’equilibrio raggiunto (pur sempre con una certa dose di tristezza e disillusione ad essere onesti) le permette di poter parlare chiaramente a Bill della loro storia, del tempo perso e della necessità di perseguire quello che sentono di meritarsi, non ripetendo i vecchi schemi ma esplorando quelle acque sconosciute che permettono di capire chi sono realmente. E’ bello e anche liberatorio poter sentir dire da Libby, prima di ogni cosa, che lei si senta libera e pronta a dire quello che sente. Di sé ma anche di cosa sia meglio per lo stesso Bill. Di come lei lo abbia sempre saputo e di come il suo sentimento per Virginia sia tutto quello che l’amore dovrebbe essere.
Un tema strettamente collegato a questo, che si riallaccia con quanto mostrato negli scorsi episodi, trova qui l’esposizione del suo nodo fondamentale: le deviazioni sessuali altro non sono che la maniera di poter esprimere la nostra unicità in contrapposizione a quella che viene definita la “giusta” normalità. Mai in questi termini il sesso torna ad essere centrale nella serie, raggiungendo forse il suo punto centrale. Mai come in questo episodio la dichiarazione di Bill, simile ad un “coming out”, riesce a mettere in ombra ogni possibile ritorsione derivante dal patteggiamento al processo ma anzi diventa uno splendido volano per lanciare al mondo la nuova fase degli studi svolti nel suo lavoro. E non poteva uscire fuori che da un personaggio come Bill, emblema della schizofrenia di un epoca dove le persone oscillano tra la necessità del progredire (vedi evoluzione) e un approccio borghese e conservatore dello status quo.
Alcune di esse, come Betty, combattono per vivere la propria vita nonostante il mondo intorno ancora non è pronto a ciò che rappresentano. Anzi, certe scelte possono portare a distruggere i rapporti che si pensano essere indissolubili (Helen e i suoi genitori). Splendida in tal senso è la descrizione della casa di bambole, in cui Helen sapeva fin da piccola di dover recitare una parte non sua.
Una parola sul finale. Bill ammette di avere un problema nelle riunioni degli alcolisti anonimi. La sua dichiarazione segue il suo discorso ai giornali ed è, a giudizio di chi scrive, di un’ambiguità tale da centrare esattamente cosa vuole dire “buttarsi in acque inesplorate”. Si vedrà quali conseguenze avrà nella sua storia con Virginia ora che sembra essere una scelta consapevole.
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Dopo miliardi di ore passate a vedere cartoni giapponesi e altra robaccia pop anni ’80 americana, la folgorazione arriva con la visione di Twin Peaks. Da allora nulla è stato più lo stesso. La serialità è entrata nella sua vita e, complici anche i supereroi con le loro trame infinite, ora vive solo per assecondare le sue droghe. Per compensare prova a fare l’ingegnere ma è evidentemente un'illusione. Sogna un giorno di produrre, o magari scrivere, qualche serie, per qualche disperata tv via cavo o canale streaming. Segue qualsiasi cosa scriva Sorkin o Kelley ma, per non essere troppo snob, non si nega qualche guilty pleasure ogni tanto.