Mindhunter 1×04 – Episode 4TEMPO DI LETTURA 5 min

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Nobody wanted me, man. Nobody on this earth ever wanted me. Put that on your fucking tape. If only they’d let me stay with my dad… It’d all be different. I might even be a lawyer, have a nice car. House. Be out in the backyard perfecting my recipe for barbecue. I’d have found my way.

“Che sia Mindhunter il vero capolavoro di Netflix?” ci si chiedeva in chiusura della nostra seconda recensione. Probabilmente sì e, altrettanto probabilmente, il merito non è (solo) di Fincher. Ovviamente la regia e la fotografia dei primi due episodi da lui diretti hanno il grandissimo merito di aver catturato l’attenzione dello spettatore, mostrando fin dal principio di voler proporre una serie autoriale, con uno stile ben preciso, che tanto può dare al proprio pubblico, se si decide di ricambiare con attenzione e pazienza il lavoro certosino eseguito fin nei più piccoli dettagli e inquadrature.
Anche se in questi ultimi due episodi la camera è passata dalle mani di Fincher (che ritornerà per dirigere il nono e il decimo) a quelle di Asif Kapadia, è evidente che a dettar legge resta ancora il regista di Fight Club e Zodiac: colori freddi e pochissimi movimenti di camera contribuiscono alla sparizione progressiva della regia, lasciando all’ottima recitazione degli interpreti e alla densità della scrittura il compito di trasmettere emozioni. Da quella primissima scena della prima puntata con cui si sono magistralmente aperte le danze, non è stata più mostrata alcuna scena splatter, se non nelle ricostruzioni fotografiche dei vari distretti di polizia. Addirittura, è sempre dal primo negoziato di Holden Ford che non si sente uno sparo d’arma da fuoco. Eppure, Mindhunter si fregia di essere un crime drama e, effettivamente, la tensione è tangibile e persistente e continua a seguire i protagonisti nei loro viaggi on the road, tra improvvisi incidenti stradali e drammi familiari.

So Rissell’s the real victim here?

“Episode 4” nello specifico rappresenta un punto di svolta veramente importante all’interno della serie stessa. Non tanto per i 385.000 dollari che spuntano fuori a fine episodio e non solo per la decisa e apprezzata accelerata di caratterizzazione riservata a Bill. Certo, più si va avanti nella narrazione e più lo spettatore si sente legato ai protagonisti e alle loro tensioni in quel modo così viscerale e cruento che solo Fincher riesce a dare – basta osservare lo sviluppo dei due detective, l’attenzione che la telecamera riguarda ad ogni loro reazione per riportare alla memoria tutto il turbinio di emozioni che, per esempio, legava Ben Affleck e Rosamund Pike in “Gone Girl” – ma il fulcro della narrazione generale è cercare di raccontare come nel campo della profilazione criminale sia esistito un prima (di cui abbiamo avuto un assaggio nei dialoghi con i poliziotti nel primo episodio) e fortunatamente esista ancora oggi un dopo. Da questo punto di vista, sette parole in una domanda sono più che sufficienti ad aprire uno squarcio nelle coscienze di tutti. Di chi è veramente la colpa? Sarebbe Rissell la vittima?
Probabilmente, anche per gli orrori che il secondo dopoguerra si è ritrovato ad affrontare, per un periodo di tempo troppo lungo la psicologia e più in generale la sociologia hanno permesso, con pochissime voci fuori dal coro, che si venisse a creare un cortocircuito per cui ogni sorta di apparente deviazione dalla moralità comune (quindi indipendentemente dalla legalità o meno dell’atto in sé) era immancabilmente ricondotto sotto il comune denominatore della pazzia, o comunque legato ad un “errore” strutturale e genetico, unico  grande responsabile di ogni forma di comportamento anormale. Quello che potrebbe essere definito un atto collettivo di autodifesa ha consentito a tutti di tirare un sospiro di sollievo, di non porsi la domanda più scomoda di tutte: se Rissell ha fatto quel che ha fatto perché indotto dal sistema sociale in cui era immerso, io al suo posto…? Non porsi questa domanda si traduce naturalmente in una maggiore tranquillità, ma che come ogni altra forma di de-responsabilizzazione non elimina il problema, semmai aggrava ulteriormente la discriminazione e la diffidenza in ogni cosa che sia “altro” o “estraneo” dalla propria concezione di normalità, condizioni naturali di sviluppo per ulteriori manifestazioni di disagio e disturbo sociale.
Chiaramente, come risponde anche Holden al suo collega, iniziare a considerare propensione genetica e ambiente di sviluppo fattori di pari importanza non implica in nessun modo l’assoluzione del carnefice, che anzi resta carnefice indiscusso. Piuttosto è un nodo fondamentale nella comprensione di come il problema possa essere affrontato, in modo che non si riproponga in futuro. Riconoscere gli errori della società, soprattutto nell’ambito educativo e famigliare, è il primo passo che un serio esame di coscienza dovrebbe prendere in considerazione. È il primo passo con cui Holden e Bill accettano di mettere in gioco tutto sé stessi, anche a costo di rimanere coinvolti e intorbiditi personalmente, perché “yes, what happens to these men is normal, but the way that they process it is not: that’s our goal, to dig into the why.” Riconosciute queste fondamentali premesse, la discesa negli inferi della mente umana può solo che cominciare.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Tutto
  • Niente

 

La figura di John E. Douglas, profiler dell’FBI e scrittore del libro alla base di Mindhunter, è stata d’ispirazione per la creazione di diversi personaggi televisivi. Tra tutti spicca sicuramente l’indimenticabile Will Graham di Hannibal, serie che quando finì la sua corsa su NBC nel 2015 fece nascere diverse petizioni rivolte a Netflix perché riportasse in vita lo show di Bryan Fuller. Ora dopo più di due anni, si può dire che Reed Hastings e i suoi hanno fatto molto di più: prendere il libro di Douglas e consegnarlo nelle mani sapienti di Joe Penhall e David Fincher merita tutte le nostre benedizioni.

 

Episode 3 1×03 ND milioni – ND rating
Episode 4 1×04 ND milioni – ND rating

 

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