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Nel 2014 andava in onda Penny Dreadful che, con le sue tre stagioni, ha conquistato gran parte del pubblico per: la suggestiva fotografia, per il clima gotico, per Eva Green che faceva l’invasata la gran recitazione di Eva Green e soprattutto per la rievocazione di storie tipiche del folklore e della letteratura horror. Si può forse dire, con il senno di poi, che il risultato visivo/estetico ha influito sul giudizio molto più della storia narrata, ovvero un minestrone di figure celebri nell’immaginario popolare che si scambiavano battute pregne di decadentismo e di accento british? Boh. C’è a chi è piaciuto.
Fatto sta che cinque anni dopo viene realizzata quest’altra serie che, stando al pilot, risulta essere uno spin-off soltanto perché condivide il nome con la sua presunta serie madre. Certo, si potrebbe obiettare che anche in questo caso si è di fronte ad un penny dreadful, ovvero un racconto dell’orrore di consumo, quasi a voler rendere il marchio una “multiserie” antologica. Eppure le differenze stilistiche sono molteplici. Vediamo quali.
L’ambientazione storica e geografica gioca sicuramente un ruolo importante nel differenziare la serie con la sua genitrice televisiva. La comunità messicana di una Los Angeles del periodo bellico non lascia spazio ad accostamenti con il clima gotico, aristocratico e vittoriano dove si muovevano Timothy Dalton e soci. Ciò che però salta all’occhio è sicuramente la differenza che risiede nell’impianto narrativo dello show, apprezzabile e non, allo stesso tempo. Tracciare una linea narrativa precisa, delineabile, per cui sono percettibili tutti i legami è sicuramente un pregio della serie, che sceglie di rimanere con i piedi per terra al servizio della storia, lasciando (per ora) poco spazio a manierismi e necessità di stupire, scandalizzare o affascinare lo spettatore.
Una storia così ben delineata rischia però di snaturare il marchio con cui si presenta: una famiglia numerosa ed eterogenea, un protagonista forgiato da un evento traumatico del passato, lo stesso protagonista poliziotto ma facente parte della comunità latina, le discriminazioni a tale comunità, il progresso che avanza con la costruzione di un’autostrada, una comunità (sempre quella latina) che rischia di perdere tutti i luoghi di riferimento, il conflitto tra forze dell’ordine e popolo con il protagonista in mezzo, venti di guerra, venti di nazismo, famiglie ricche (altro punto comune con l’altra serie: Rory Kinnear), famiglie umili. Sicuramente l’impianto non può non ricordare la struttura di una soap oppure, a non voler essere eccessivamente crudeli, una serie storica ben impostata. L’elemento soprannaturale, con le due sorelle portatrici di morte e una ricorrente Natalie Dormer, sebbene onnipresente in tutti i 67 minuti di episodio, passa quasi in secondo piano, nel seguire e provare ad entrare nella caratterizzazione (ben fatta) del protagonista e di tutti i personaggi che lo circondano.
Sicuramente apprezzabile è anche l’elemento folcloristico che caratterizza il comparto soprannaturale, escludendo (sempre per ora) i vari Dracula, Frankenstein e altri che si accavallavano nella precedente serie. Gli orrori con cui decide di interagire sono quelli strettamente umani. La divinità messicana della Santa Morte, o meglio la sua sorella cattiva, interviene direttamente nelle azioni sanguinarie della città di Los Angeles e, forse più in grande, negli orrori di una Seconda Guerra Mondiale raffigurata in lontananza da LA, ma evocata dall’ingombrante presenza nazista nelle dinamiche cittadine.
Penny Dreadful: City Of Angels lascia con uno strano senso di indecisione su come procedere. Sicuramente il suo nome, per fan e non, una certa garanzia di qualità la assicura. C’è anche da dire che da un punto di vista strettamente narrativo non si sente questo enorme vento di novità. Forse 10 episodi da 50-60 minuti potrebbero costituire un impegno non all’acqua di rose.
Fatto sta che cinque anni dopo viene realizzata quest’altra serie che, stando al pilot, risulta essere uno spin-off soltanto perché condivide il nome con la sua presunta serie madre. Certo, si potrebbe obiettare che anche in questo caso si è di fronte ad un penny dreadful, ovvero un racconto dell’orrore di consumo, quasi a voler rendere il marchio una “multiserie” antologica. Eppure le differenze stilistiche sono molteplici. Vediamo quali.
L’ambientazione storica e geografica gioca sicuramente un ruolo importante nel differenziare la serie con la sua genitrice televisiva. La comunità messicana di una Los Angeles del periodo bellico non lascia spazio ad accostamenti con il clima gotico, aristocratico e vittoriano dove si muovevano Timothy Dalton e soci. Ciò che però salta all’occhio è sicuramente la differenza che risiede nell’impianto narrativo dello show, apprezzabile e non, allo stesso tempo. Tracciare una linea narrativa precisa, delineabile, per cui sono percettibili tutti i legami è sicuramente un pregio della serie, che sceglie di rimanere con i piedi per terra al servizio della storia, lasciando (per ora) poco spazio a manierismi e necessità di stupire, scandalizzare o affascinare lo spettatore.
Una storia così ben delineata rischia però di snaturare il marchio con cui si presenta: una famiglia numerosa ed eterogenea, un protagonista forgiato da un evento traumatico del passato, lo stesso protagonista poliziotto ma facente parte della comunità latina, le discriminazioni a tale comunità, il progresso che avanza con la costruzione di un’autostrada, una comunità (sempre quella latina) che rischia di perdere tutti i luoghi di riferimento, il conflitto tra forze dell’ordine e popolo con il protagonista in mezzo, venti di guerra, venti di nazismo, famiglie ricche (altro punto comune con l’altra serie: Rory Kinnear), famiglie umili. Sicuramente l’impianto non può non ricordare la struttura di una soap oppure, a non voler essere eccessivamente crudeli, una serie storica ben impostata. L’elemento soprannaturale, con le due sorelle portatrici di morte e una ricorrente Natalie Dormer, sebbene onnipresente in tutti i 67 minuti di episodio, passa quasi in secondo piano, nel seguire e provare ad entrare nella caratterizzazione (ben fatta) del protagonista e di tutti i personaggi che lo circondano.
Sicuramente apprezzabile è anche l’elemento folcloristico che caratterizza il comparto soprannaturale, escludendo (sempre per ora) i vari Dracula, Frankenstein e altri che si accavallavano nella precedente serie. Gli orrori con cui decide di interagire sono quelli strettamente umani. La divinità messicana della Santa Morte, o meglio la sua sorella cattiva, interviene direttamente nelle azioni sanguinarie della città di Los Angeles e, forse più in grande, negli orrori di una Seconda Guerra Mondiale raffigurata in lontananza da LA, ma evocata dall’ingombrante presenza nazista nelle dinamiche cittadine.
Penny Dreadful: City Of Angels lascia con uno strano senso di indecisione su come procedere. Sicuramente il suo nome, per fan e non, una certa garanzia di qualità la assicura. C’è anche da dire che da un punto di vista strettamente narrativo non si sente questo enorme vento di novità. Forse 10 episodi da 50-60 minuti potrebbero costituire un impegno non all’acqua di rose.
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Santa Muerte 1×01 | 0.45 milioni – 0.04 rating |
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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.