Quando l’8 settembre 1966 andò in onda su NBC “The Man Trap”, il primo episodio di Star Trek trasmesso (ma solo il sesto in ordine di produzione), nessuno avrebbe potuto immaginare di trovarsi di fronte ad una delle saghe di fantascienza più importanti e di maggior successo della storia; anzi, i ratings della serie ideata da Gene Roddenberry furono così deludenti che nel febbraio 1969 fu ufficialmente cancellata. Dopo l’acquisto da parte di Paramount Channel, le avventure di Kirk e Spock furono replicate su centinaia di canali statunitensi e vendute in decine di mercati esteri, divenendo un vero e proprio cult per milioni di trekkies in giro per il globo. Nei decenni successivi presero vita una serie animata e cinque serie live action (The Next Generation, Deep Space Nine, Voyager, Enterprise) per un totale di oltre settecento episodi, sei film che riprendevano la serie classica e quattro che riprendevano The Next Generation, romanzi, fumetti, riviste e videogiochi. Dopo la cancellazione di Star Trek: Enterprise nel 2005 sembrò che non ci fosse più un futuro per la popolare saga sci-fi nei palinsesti televisivi: la Paramount Channel tolse il controllo del franchise a Rick Berman, subentrato a Roddenberry dopo la sua morte nel 1991 e preferì intraprendere la strada del reboot cinematografico in una timeline alternativa, affidandosi a J.J. Abrams, Roberto Orci e Alex Kurtzman, noti per lavori televisivi come Lost e Fringe.
Poi, il 2 novembre 2015, CBS sganciò la bomba: una nuova serie televisiva, Star Trek: Discovery, avrebbe preso vita per il servizio on demand CBS All Access, con Kurtzman al timone e il debutto previsto per il gennaio 2017; qualche mese dopo fu annunciato l’ingresso nel progetto di Bryan Fuller in qualità di showrunner. Per i trekkers di tutto il mondo era un sogno che si avverava, il ritorno della saga in televisione dopo oltre dieci anni di assenza, ma la produzione si rivelò più problematica e complicata del previsto a causa di contrasti interni, divergenze lavorative e artistiche e opposizioni alle rigide scadenze imposte inizialmente dai dirigenti della CBS. Nell’ottobre del 2016 Fuller fu costretto a lasciare il posto di showrunner, rimanendo come produttore esecutivo, mentre la data di debutto slittò alla fine di settembre. Nello stesso tempo, l’accordo raggiunto tra CBS e Netflix per i diritti di distribuzione internazionale e la fiducia nei nuovi abbonamenti che la serie avrebbe portato al servizio CBS All Access determinarono un aumento sostanzioso del budget, che arrivò a 8 milioni di dollari circa a episodio: una cifra ragguardevole, paragonabile alle spese di Game of Thrones, Westworld, Marco Polo e The Get Down, che dimostra la fiducia nel progetto. Fiducia ben riposta, almeno a giudicare da quanto visto nei primi due episodi, “The Vulcan Hello” e “Battle At The Binary Stars”.
“They are coming. Atom by atom, they will coil around us and take all that we are. There is one way to confront this threat. By reuniting the twenty-four warring houses of our own empire. We have forgotten the Unforgettable, the last to unify our tribes: Kahless. Together, under one creed, remain Klingon! That is why we light our beacon this day. To assemble our people. To lock arms against those whose fatal greeting is… we come in peace.”
Star Trek: Discovery si colloca nella saga nata dalla fantasia di Roddenberry come un prequel della serie classica. L’anno è il 2256: i rapporti tra la Federazione Unita dei Pianeti, che unisce pacificamente svariate razze, tra cui gli Umani e i Vulcaniani, e il bellicoso impero Klingon sono tesi, ma non c’è nessun conflitto vero e proprio quanto piuttosto uno stato di guerra fredda, con contatti sporadici. T’Kuvma, capo di una delle ventiquattro grandi casate Klingon, è convinto che l’influenza della Federazione stia contaminando la purezza della cultura Klingon e mira a riunificare il proprio popolo, servendosi di un potente faro noto come Luce di Kahless per chiamare a sé le altre casate e guidarle in guerra come loro signore; tuttavia, nello stesso sistema stellare binario in cui si trova l’artefatto giunge la USS Shenzhou, inviata lì dalla Federazione per investigare sui danni subiti da un ripetitore stellare. Lo spettacolare scontro che ne deriva, la battaglia delle stelle binarie (che dà il titolo al secondo episodio), vede la sconfitta della flotta federale accorsa sul luogo, ma anche la morte di T’Kuvma, benché tale evento possa paradossalmente rappresentare un ulteriore tassello verso l’unità dei Klingon piuttosto che frenarla.
A bordo della USS Shenzhou si trovano il capitano Philippa Georgiou, l’ufficiale scientifico Saru (appartenente ad una razza creata appositamente per questa serie, i Kelpiani) e soprattutto il primo ufficiale Michael Burnham, la vera protagonista della serie (infrangendo così la tradizione secondo cui tale ruolo spettava al capitano di turno), un’umana cresciuta dai Vulcaniani dopo che la sua colonia è stata devastata proprio dai Klingon; per la precisione, Michael è stata cresciuta da Sarek, padre nientemeno del celeberrimo Spock, il che ne farebbe la sorellastra dell’ufficiale scientifico della USS Enterprise. Quanto al capitano, la sua morte alla fine del secondo episodio non impedisce di metterne a fuoco i caratteri fondamentali: la forza e il carisma, il rispetto della disciplina e delle regole, la fedeltà totale alla filosofia pacifista su cui si fonda la Federazione Unita dei Pianeti (“We come in peace”, “Starfleet doesn’t fire first”), la fiducia nel dialogo e nella diplomazia. Tra le due donne, che dominano praticamente la scena in questi due episodi (Saru ha un ruolo molto più defilato), Philippa è sicuramente la più vicina all’ideale “classico” propugnato da Roddenberry di un’umanità priva di lati negativi perché evolutasi fino al punto da eliminarli, fiduciosa nel progresso e nella pace, tendente ad un approccio diplomatico piuttosto che offensivo e minaccioso.
In Michael, invece, convivono due nature, quella umana, emotiva e sentimentale e quella “adottiva” vulcaniana, dominata dalla fredda logica e dalla soppressione delle emozioni a favore della razionalità (“And still you allow emotional considerations to impede your logic” afferma Sarek, e la “figlia” gli risponde “They inform my logic”), una dicotomia già vista proprio nel personaggio di Spock e che offre tanto ottimo materiale da sfruttare. Ma nel corso dei primi due episodi la ragazza si troverà anche divisa tra il rispetto delle gerarchie militari e della catena di comando da un lato e il loro scavalcamento per compiere le azioni che ritiene giuste, optando alla fine per quest’ultimo e dando vita a un’insubordinazione che le costerà davvero cara nel finale di “Battle at the Binary Stars”.
Non è la prima volta che un protagonista di Star Trek viene condannato da un tribunale militare, basti pensare al capitano Kirk alla fine del film Star Trek IV: The Voyage Home, ma qui la condanna è particolarmente dura (perdita del grado di primo ufficiale ed ergastolo) e nel contempo rappresenta il perfetto punto di partenza per un percorso di risalita e di riscatto personale.
E poi ci sono loro, i Klingon. La prima cosa che balza all’occhio è sicuramente l’ennesimo restyling a cui sono stati sottoposti e che li ha resi ancora più spaventosi e “alieni”, ben diversi dagli umanoidi barbuti delle serie precedenti; all’orecchio, invece, non sfugge il fatto che quasi tutte le loro battute sono in Klingonese (un vero tocco di classe, favorito forse dal recente successo delle lingue artificiali create per Game of Thrones, il Dothraki e l’Alto Valyriano), al punto che forse non è poi così esagerato affermare che si sentono più parole in tale lingua in questa ottantina di minuti che in tutte le precedenti serie televisive e film della saga.
Una cospicua fetta di minutaggio è dedicata alla rappresentazione della bellicosa cultura Klingon, compreso il suggestivo funerale di un guerriero a metà di “The Vulcan Hello”, mettendo bene in luce come essi non siano dei semplici villains fini a se stessi, messi lì solo per fare da antagonisti, bensì un popolo dalla forte etica guerriera, in maniera non molto dissimile da Spartani, Vichinghi, Aztechi, Mongoli o Pellerossa. Nello stesso tempo, i Klingon si fanno ancora una volta specchio dei nostri tempi: se nella serie originale presentavano analogie con i regimi totalitari (nonostante Roddenberry non intendesse inserire parallelismi politici nella sua opera) e in The Next Generation la loro alleanza con la Federazione rifletteva il clima di distensione tra USA e URSS, in Discovery il parallelismo dichiarato è con gli Stati Uniti stessi, o meglio con alcune sue fazioni e ideologie nazionaliste e isolazioniste, al punto che “Remain Klingon” può essere quasi letto come la versione trekkiana di “Make America Great Again”; i temi della purezza culturale e dello scontro tra civiltà, però, rimandano anche all’ISIS e al fondamentalismo islamico in generale.
Visivamente le prime due puntate di Star Trek: Discovery sono spettacolari, una gioia per gli occhi: grazie al lavoro superbo svolto sul lato tecnico (effetti speciali, CGI, makeup degli alieni, scenografie, fondali, fotografia) e alla scelta di filmare la serie in formato 2:1 sembra di essere quasi in un film cinematografico e non in televisione. L’estetica e lo stile della messa in scena ricordano più i recenti lungometraggi reboot che le serie precedenti e questo potrebbe scontentare i fan duri e puri, ma era oggettivamente impossibile realizzare qualcosa di nuovo per il grande pubblico che prescindesse dall’esperienza (controversa sì, ma con ampio riscontro in termini di successo commerciale e di critica) di Abrams e soci. Discorso simile si può fare per quanto riguarda il livello tecnologico mostrato in questi due episodi, nettamente superiore a quello della serie originale di Roddenberry nonostante ne sia un prequel e di conseguenzanon dovrebbe: critica legittima, per carità, ma su cui sarebbe meglio non fossilizzarsi troppo, perché la vecchia serie mostrava il futuro così come era immaginato negli anni ’60 e riproporre la stessa cosa nel 2017 sarebbe risultato a dir poco anacronistico, ai limiti della necrofilia.
Ciò che conta davvero è che sotto tutti quei pixel di CGI e quei lens flares di abramsiana derivazione ci sia ancora lo spirito autentico, essenziale di Star Trek, pur aggiornato ai tempi moderni: la dicotomia tra logica e sentimenti, lo scontro tra l’utopia pacifista della Federazione e il militarismo sfrenato di una razza aliena, la trattazione di problemi contemporanei attraverso la trasposizione nel futuro e nello spazio e l’incontro/scontro tra culture sono temi che emergono già in queste due prime puntate. Sono solo accenni che fanno capolino sulla scena ora più ora meno timidamente, oscurati spesso e volentieri dai ben più dirompenti combattimenti spaziali o dall’epicità dei momenti d’azione, ma non si deve nemmeno dimenticare che “The Vulcan Hello” e “Battle At The Binary Stars” sono solo i primi due episodi, una mera introduzione della storia e dei personaggi se non il primo atto di un pilot ben più ampio che ne vedrà il secondo in “Context Is for Kings”; prima di bocciare definitivamente Discovery e accusarla di aver tradito lo spirito di Star Trek bisognerebbe dunque attendere ancora altri due-tre episodi ed aspettare di entrare nel vivo della narrazione.
Una cosa, comunque, è certa e chiara fin da queste prime due puntate: la nuova serie non intende offrire quella visione pienamente utopica e ottimistica del futuro che aveva in mente Gene Roddenberry e che, per quanto lodevole, piacevole e rassicurante, risulterebbe troppo naif ai nostri giorni. Questo non si traduce in un’esaltazione della guerra sopra ogni altra cosa né getta via decenni di messaggi trekkiani sull’importanza della pace e della diplomazia, sulla convivenza tra razze diverse e sulla possibilità di risolvere senza spargimenti di sangue i conflitti, ma mette in luce come questi ideali e questi messaggi debbano scontrarsi con una dura realtà, a volte non altrettanto aperta al confronto.
I Vulcaniani, per citare l’esempio più eclatante di questo nuovo corso, non sono stati trasformati di colpo in un popolo guerriero assetato di sangue e il “saluto vulcaniano” di cui Sarek parla alla sua protégée non va letto come un tentativo di scatenare una guerra o di distruggere una civiltà che non si vuole comprendere; anzi, è l’esatto opposto, una dimostrazione, per quanto paradossale, di voler venire incontro al diverso comprendendone i valori: i Klingon sono guerrieri e rispettano chi si comporta come tale invece di tentare un approccio pacifico che la loro etica trova ripugnante, e solo comportandosi da guerrieri i Vulcaniani potrebbero instaurare un dialogo con loro.
Un ultimo accenno va fatto agli attori. Manca quello che forse era il più atteso dal pubblico, Jason Isaacs, ma non ci si può comunque lamentare, tra l’ottima performance di Michelle Yeoh nei panni di Philippa Georgiou, la presenza di un altro bravo attore quale James Frain nel ruolo di Sarek e le più che convincenti prime impressioni di Sonequa Martin-Green nella parte di Michael Burnham e di Doug Jones, attore feticcio di Guillermo del Toro, sotto le fattezze aliene di Saru. Peccato solo per i Klingon, la cui espressività è totalmente annullata da tutto quel trucco e quelle protesi.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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The Vulcan Hello 1×01 | 9.6 milioni – 1.9 rating |
Battle At The Binary Stars 1×02 | ND milioni – ND rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.