“Something is rotten in the state of Denmark.”
Una stanza. Tutta questa serie e la sua qualitativamente intaccabile narrazione si riducono a quattro pareti di una camera di albergo. Il buco nero che veniva descritto nelle precedenti recensioni si trova in questo luogo ed è proprio da qui che il cammino verso la verità relativamente alla morte di Frank Olson aveva avuto inizio.
La verità, tuttavia, è effimera e trattata come oggetto ornamentale superfluo. In un dialogo del film del 2009 Law Abiding Citizen (Giustizia Privata), viene proferita questa frase: “Non conta ciò che sa, ma quello che può provare alla corte”. A maggior ragione, quando dall’altra parte della sbarra come accusato si trova la CIA, paternalmente protetta dal governo USA, le prove ed i fatti da portare di fronte alla corte devono essere inattaccabili ed incontrovertibili, per poter giungere ad un giudizio di colpevolezza pieno e sacro santo. Tuttavia Eric Olson viene divorato da due precisi elementi che sono stati ben presentati all’interno della docu-serie, anche in questo capitolo finale: il primo è la sua incapacità nel trovare pace, il secondo è la mancanza di un vero appoggio in questa sua personale missione e cammino.
“The fact that you can’t get closure in this thingwill be of great satisfaction to the CIA. The old-timers, they’ll love it. They’ll love it. The tradecraft won. ‘We got away with one.’ Even though a few people may know what happened, so what? Nobody else does. It’s a victory for them. You know, mark up one, one for them, zero for us on this one. But don’t you know how wonderful it is to not have an ending? I think you’re really wrong to want this pretty little thing bowed up and tied. It’s wonderful not to have an ending.”
Eric non riesce a trovare pace sia perché effettivamente l’accusa di colpevolezza non giunge in porto così come lui vorrebbe, sia perché la morte del padre ha talmente eroso e distrutto la sua personalità da ritrovarsi come un automa che può vivere solamente in connubio con tale ricerca: se la ricerca dovesse trovare conclusione e la verità dovesse venire finalmente esposta, Eric si ritroverebbe svuotato, senza uno scopo ed interiormente incapace di come procedere da quel punto. D’altra parte la verità è la meta e non invece l’inizio di un cammino, ma il percorso di Eric è stato talmente complicato da portarlo ad estraniarsi da qualsiasi altro aspetto che al caso non sia collegato. Da qui la metafora con la casa presentata da Morris nella passata puntata.
Messosi in contatto con Seymour Hersh, vincitore del Premio Pulitzer, Eric pensa di poter finalmente portare a galla la verità, di far luce sul mistero pensando di poter contare su di un giornalista di fama internazionale dalla cui penna sono partite accuse ed articoli pungenti relativamente sia all’ambito militare, sia nello specifico al campo della guerra batteriologica. Tuttavia tale desiderio non troverà conferma in Seymour che si riconosce incapace di poter scrivere tale articolo, considerando che così facendo metterebbe in serio pericolo la vita della propria Gola Profonda. A questo punto della narrazione lo spettatore percepisce quasi un brivido lungo la schiena: la sensazione generale è quella di aver abbandonato il panorama documentaristico e di essere approdato nel complotto più astrusamente costruito, tanto da poter far apparire The X-Files come una banale commediola da quattro soldi. Per sottolineare ulteriormente l’agghiacciante narrazione, Morris gioca attorno all’elemento della ridondanza che per questa volta funziona decisamente bene ed è utile a fissare nella testa dello spettatore cosa i fatti portano a credere sia successo quella notte in quella camera d’albergo e perché Frank Olson dovesse essere giustiziato. Ad aggiungere effetto alla ridondanza è che il riassunto della vicenda sia costantemente fatto dal figlio, portando lo spettatore a chiedersi come riesca a rimanere a suo modo freddo e distaccato nel presentare in quelle frasi concetti ed idee che per qualsiasi altra persona (distante dai fatti) risulterebbero fuori da qualsiasi logica umana. Ancora una volta, quindi, sceneggiatura e regia giocano con lo spettatore tramite l’elemento della paranoia, con il giusto pizzico di angoscia e terrore.
“They regarded my father as a problem.That became crystallized at Deep Creek Lake. The purpose of the whole meeting was to find out whether Frank Olson was a problem. He made some statements that were highly critical of what his group was doing. They then gave him a chance to ‘recant’. ‘I didn’t say that. I don’t mean that.’ ‘Recant’ is a funny word. And apparently, he said, ‘No! This is where I stand. I can do no other.’ He refused to take back the stand he had made. And later realizes there may be incredible cost to this. He felt ‘Hmm, I may have gone too far here. Maybe there’s gonna be cost to this that I don’t wanna pay.’ He started to realize that his life was at stake here. He goes to work, and says, ‘I wanna quit the job.’ They take him to Abramson, the doctor in New York. He probably said, ‘There’s no way we can guarantee what he’s gonna do.’ Lashbrook called the Office of Security: ‘We’re really up against it here.’ That’s kind of the end of their responsibility. Probably they wouldn’t even know exactly how it’s gonna be handled. They wouldn’t know. The Office of Security arranges some guys to do whatever guys do.”
La verità, quindi, viene nuovamente celata e riposta nel cassetto della scrivania, ritornando nell’ombra. Ma il vero punto della serie e lo scopo di questo scorcio storico raramente presentato è un altro ed è quello che concede il titolo a questo sesto capitolo: “Remember Me”. Non dimenticare Frank Olson e della sua brutale esecuzione è ciò che lo spettatore deve fare e Wormwood è qui per questo: una sorta di testamento video registrato da parte di Eric Olson ed Errol Morris per non far cadere nel vuoto tutta questa vicenda e tutti i misteri e segreti ad essa collegati. Ma ricordare risulta essere anche la cosa più difficile fare, basti pensare al figlio Eric divorato interiormente da ormai cinquant’anni da questa vicenda.
Non resta che ringraziare Netflix per aver dato la possibilità a questo prodotto di vedere la luce, ma c’è da sperare che questa luce possa illuminare e recare respiro e pace anche ad Eric Olson in futuro, magari concedendo una volta per tutte alla verità di tornare a galla senza costrizioni o mancanze. D’altra parte, proprio la speranza è l’unico fattore che ancora resta e porta energia ad Eric: la speranza di poter far giustizia, un giorno, alla figura di un padre e marito, ingiustamente assassinato nel lontano 1953.
“Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità.” (Vita di Galileo, Bertolt Brecht)
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Chapter 5: Honorable Men 1×05 | ND milioni – ND rating |
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.