“You’ve been imbued with the power of the Thousand Monks. You are the Wu Assassin. Their faces will protect you so you can do what they could not.”
(Morale: quando guidate, occhi sulla strada. Sia mai che investiate una guerriera di un altro mondo che vi affida un compito gravoso.)
Netflix si butta sul genere action-noir (con echi di fantasy) grazie alla nuova serie Wu Assassins, contenente un’ampia dose di calci e pugni rotanti.
Questo genere di produzioni si basa, da sempre, su una trama abbastanza semplice ed elementare che è più un pretesto per mettere in scena coreografie e combattimenti sempre più esagerati e iperbolici, quasi al limite dell’auto-parodia (ma che ai fan piacciono proprio per questo, per cui si cercherà qui di giudicarli anche in base a quest’ottica).
Wu Assassins non si discosta per nulla da questo schema narrativo, anzi, si può affermare che ne è l’emblema.
C’è un eroe, Kai Jin (Iko Uwais, al suo esordio sul piccolo schermo dopo capolavori di genere come The Raid e Man Of Tai Chi), uomo dalla vita “normale” che lavora come chef in un ristorante asiatico. Ad un certo punto, si trova a dover difendere persone a cui vuole bene dalla mafia cinese, che per questo motivo vuole fargliela pagare. Tuttavia, grazie all’aiuto di una “creatura magica” acquisisce forze e abilità tali da sconfiggere da solo tutti gli scagnozzi del boss di turno, Zio Six (un proverbiale Byron Mann, anch’esso caratterista di genere molto apprezzato). In cambio lui dovrà compiere una missione: scovare i possessori del “potere Wu” e ucciderli tutti grazie ai suoi nuovi super poteri.
Vista così sembra la trama più semplice e banale di questo mondo, e in effetti lo è. Va detto, però, che la serie in questione non sembra avere grosse pretese di autorialità, quanto il desiderio di essere semplicemente una buona serie d’intrattenimento “artigianale”, adatta per il binge-watching estivo. E qui sta la differenza, ad esempio, con una serie come Marvel’s Iron Fist, affine sotto molti aspetti a questa, che voleva distinguersi per un’autoreferenzialità e una seriosità francamente inutili che hanno avuto il solo risultato di renderla pesante agli occhi dello spettatore.
Wu Assassins non cerca nulla di tutto ciò e si palesa fin da subito come serie di puro intrattenimento. Il che non vuole affatto dire che manchi di qualità e attenzione per quanto riguarda scrittura e regia, cosa su cui purtroppo molte serie tv simili cadono sempre più di frequente.
Dal punto di vista tecnico, la regia è molto ben strutturata. Soprattutto le coreografie di arti marziali, pur con tutte le esagerazioni del caso. Anche perché si rifanno al Silat indonesiano, le cui tecniche sono volutamente contorte. Un’attenzione verso le “minoranze asiatiche”, e le loro specificità, non banale se si pensa che in genere le produzioni americane se la sbrigano con il generico appellativo di “cinesi” per qualsiasi abitante del quartiere China Town di San Francisco (anche qui scelta emblematica in quanto ambientazione dell’omonimo capolavoro di Roman Polanski).
Il protagonista, infatti, viene identificato fin da subito come “indonesiano e musulmano”, rimarcando la differenza con gli altri personaggi “asiatici”. Per il resto, purtroppo, al pari di tutti gli altri personaggi, manca di un background definito e di una caratterizzazione veramente efficace. Di lui si sa soltanto che fa il cuoco e che sogna di mettersi in proprio con un’attività di street food (a tal proposito: bella la maglietta Kung Foodie Street Fusion!). Nonostante tutto, però, risulta avere anche un qualche background da artista marziale in quanto riesce facilmente a contrastare gli scagnozzi di Zio Six sul suo food trunk.
In effetti, il problema principale della serie sta tutta qui: il conferimento dei poteri all’eroe-protagonista (in maniera del tutto fortuita e casuale nonostante sia “il Prescelto”) è quanto di più inutile ci possa essere. Lui è già un bravo artista marziale ben prima di ottenere i poteri (ed è comunque uno abituato a maneggiare oggetti contundenti in cucina, tipo un Carlo Cracco ancora più incazzato del solito). E’ anche vero che grazie alla “magia” le sue abilità vengono ulteriormente accentuate da una velocità e una prontezza di riflessi innaturali, ma fino a quel momento se la cava egregiamente anche da solo.
L’unica nota “originale” di tutto ciò, è il fatto che i nuovi poteri gli derivano dall’anima di 100 antichi monaci esperti di arti marziali che ora dimorano in lui e che si servono del suo corpo (assumendone le fattezze agli occhi degli estranei) per combattere. Uno stratagemma narrativo che permette alcune soluzioni registiche niente male come il continuo “gioco di specchi” tra Kai e i suddetti monaci e che permette di spiegare meglio l’introduzione iniziale, all’inizio apparentemente veloce e semplicistica, e di portare avanti la trama in maniera efficace da qui in avanti.
Dopo un’iniziale sospensione d’incredulità quindi, la serie dimostra di possedere una certa logica, sempre abbastanza labile ma comunque migliore di molte altre serie. Rimangono dei difetti sulla gestione dei piani temporali (un flashback così lungo e tanti accadimenti in un solo giorno?), alcune storyline che non sembrano convincere del tutto (totalmente sprecata Katheryn Winnick, oltre che personaggio pressoché inutile), e una CGI, nella sequenza “fantasy”, che è certamente da migliorare. Ma, a livello generale, c’è sicuramente una genuinità che fa quasi perdonare tutte queste “ingenuità narrative”. Sicuramente non si parla di un capolavoro ma, come già detto, l’intenzione dello show non è certamente quello di concorrere per gli Emmy casomai per il Premio Sylvester quanto semplicemente quello di intrattenere e basta. Solo con questa consapevolezza si può pensare di passare all’episodio successivo.
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Laureato presso l'Università di Bologna in "Cinema, televisione e produzioni multimediali". Nella vita scrive e recensisce riguardo ogni cosa che gli capita guidato dalle sue numerose personalità multiple tra cui un innocuo amico immaginario chiamato Tyler Durden!