0
(0)
Ricordando Lost: “make your own kind of music…”
Lost rappresenta tuttora un rito iniziatico per i futuri compulsivi spettatori seriali. Contiene tutte le caratteristiche che hanno poi portato alla creazione di piattaforme con l’obiettivo di evitare attesa tra un episodio e un altro (vedi Netflix o Amazon). Chi inizia il recupero di Lost, riprende il respiro solo alla fine.
Per molti motivi Lost viene considerato precursore di tante serie attuali. È vero solo in parte. Senza dilungarci troppo in quello che non è l’argomento da prendere in esame, si possono individuare come “figlie” di Lost esclusivamente due filoni di serie. Da un lato ci sono categorie di mistery dozzinali (leggi Under The Dome, Alcatraz, Resurrection) dove, data una premessa assurda, lo spettatore si fa strada tra mille episodi mal scritti solo per poter avere una risposta nel finale. Figlie più “nobili” sono serie che spingono lo spettatore a dire “eeeh se fosse stato della HBO…”. Person Of Interest, Fringe, The Good Wife possono essere degli esempi a libera interpretazione. Si parla ovviamente di serie trasmesse in canali non via cavo, dove l’aspetto procedurale risponde ad un’esigenza prima commerciale che artistica (prendendo ad esempio Buffy The Vampire Slayer, possiamo distinguerla dagli esempi prima citati, in quanto gli episodi migliori sono proprio quelli autoconclusivi, veri e propri esercizi di stile, retti da una trama orizzontale spesso poco avvincente). Queste serie hanno l’enorme merito di conciliare l’esigenza dell’emittente gratuita, con una scrittura accurata, di qualità e con una strada ben definita.
Lost era una serie con una continua trama orizzontale, “proceduralizzata” dalle lenti di ingrandimento poste di episodio in episodio su un personaggio diverso, prevedendo inoltre un percorso stratificato in diversi livelli progressivi.
Dove è arrivato Lost? Ad un punto finale ben preciso che tanto non è piaciuto. La discussione tra sostenitori e detrattori è impossibile, fuori controllo. Le posizioni di ognuno rimangono esattamente immobili. È possibile conciliarle? È possibile smuoverle? Cosa determina una visione rispetto ad un’altra?
L’obiettivo di questo scritto non è quello di sostenere uno schieramento o l’altro. Si tenta qui di dare una coerenza alle scelte (tuttora sostenute) dei creatori, cercando di non divinizzare l’intera opera, così come di non buttare tutto a mare.
È necessaria una prima distinzione. Tendenzialmente (senza che questa sia una regola inattaccabile), chi ha recuperato la serie dopo il suo finale ha avuto modo di osservare il tutto nella sua completezza, senza interruzioni, senza divisioni. I malcapitati che, invece, per sei anni hanno dovuto pazientemente seguire le vicende isolane, settimana dopo settimana, non possono averla presa benissimo. Il series finale infatti diventa un season finale della sesta stagione, molto diversa dalle altre, dando così l’impressione di aver abbandonato tutto quello che c’era stato prima.
Spettatori di scienza, spettatori di fede: “…make your own special song”
Ad un certo punto John Locke crea una divisione che renderà radicale la sua divergenza con Jack: uomo di scienza, uomo di fede. Il primo si incarna (almeno per metà serie) con il medico di Los Angeles: preoccupato nel risolvere le piccole emergenze, cercando di tenere tutti al sicuro; completamente diffidente ed estraneo verso tutte le possibili congetture e letture mistiche della loro esperienza da naufraghi. Il secondo capisce (o interpreta) che tutto ciò che sta accadendo ha un motivo di fondo, una ragione non immediatamente percepibile. Il seguire un obiettivo apparentemente senza senso può essere vitale per seguire un percorso che il proprio destino ha tracciato. Banalmente: Jack persegue i fatti, la razionalità; John percepisce la realtà come un enorme messaggio che il proprio destino gli sta inviando. Ovviamente il risultato è che sbagliano tutti e due: Jack comprenderà che il suo posto è sull’isola, intraprendendo così un percorso di “redenzione” culminato come tutti sanno. Dal canto suo, John pagherà con la vita le sue irrazionali convinzioni.
Forse inconsapevolmente, gli autori, con le loro scelte finali non hanno fatto altro che creare una corrispondente divisione tra gli spettatori. Con la differenza che in questo caso nessuno ha torto.
Lo spettatore di scienza avrebbe voluto tutte le risposte. Avrebbe voluto una coerenza nella sceneggiatura. Avrebbe semplicemente voluto un’enorme chiusura del cerchio. Una serie che inizia con un grandissimo mistero presuppone una risoluzione dello stesso, non l’apertura di tante, troppe domande. Un finale estremamente simbolico e spirituale sarà solo la goccia che farà traboccare il vaso (anche se The Sopranos continua ad essere giustamente considerato come una delle serie scritte meglio, e lì di chiusura del cerchio c’è ben poco, ma questa è un’altra storia).
Lo spettatore di fede, dal canto suo, deve il buon favore con cui accoglie il finale, all’approccio iniziale nei confronti di Lost. Su chi è dirottata la sua attenzione sin dall’inizio? Verso i personaggi. I personaggi fanno da muro portante dell’intera serie, per lo spettatore di fede. Come detto, non vi è una visione sbagliata. Se interessarsi ai misteri dell’Isola è legittimo in quanto l’Isola è protagonista della serie e ambientazione principale, non è nemmeno sbagliato orientarsi sui personaggi. Questi, infatti, hanno ogni volta a disposizione una buona metà di episodio indirizzata alle loro vite private, utile ad un approfondimento morale e descrittivo su tutti quanti.
Lo spettatore di fede (la definizione può risultare priva di senso, si legga “spettatore di fede” come uno spettatore più propenso all’aspetto emotivo/estetico e meno rispetto a quello scientifico/razionale) non potrà che godere del fatto che la risoluzione delle 6 stagioni sia indirizzata unicamente ad un non-luogo metafisico nato dall’importanza dell’unione tra i vari personaggi, coinvolti in un’esperienza inesplicabile (l’Isola o la serie tv stessa?). L’Isola quindi si trasforma in un importantissimo veicolo per giustificare la crescita e il percorso di formazione dei vari Sawyer, Charlie, Jack, Desmond e altri. L’affetto incondizionato che nasce nei confronti di alcune figure trova la sua consacrazione nei toccanti momenti di riconoscimento e riunione finali.
Si capisce quindi che sarà impossibile una discussione dove a “l’orso polare da dove veniva?” si risponderà “quanto ho pianto quando Charlie e Claire si riconoscono”. L’immagine appena descritta è caricaturale e approssimativa, ma quando l’attenzione è attratta da due diversi punti, ugualmente importanti e ugualmente presenti, è veramente difficile farli incontrare o ritenere uno più giusto dell’altro, secondo parametri puramente oggettivi.
Cerchi concentrici
Si è detto che si vuole cercare una coerenza nell’agire di Lindelof e soci. Cominciamo con una lettura che vede nel progredire della serie un andamento armonico, come un insieme di cerchi concentrici. Il centro è da considerarsi la vita dei personaggi in relazione all’Isola (per cercare di unire i due principali punti focali tra sostenitori e detrattori).
“The End”, ma tutta la sesta stagione in generale, non è stilisticamente perfetta. Possiede momenti forse troppo caricati di misticismo, cercando altre volte la lacrima facile nello spettatore più sensibile. Tuttavia la sesta stagione è anche il risultato di una continua progressione che può essere così sintetizzata:
– Stagione 1: personaggi carichi di mistero atterrano su di un’isola carica di mistero.
– Stagione 2: personaggi meglio delineati entrano a contatto con altre realtà dell’Isola (botola, presenza di altri abitanti, passeggeri della sezione di coda).
– Stagione 3: personaggi ormai totalmente trasparenti agli occhi dello spettatore, conflitto con gli Altri, fine dei flashback.
– Stagione 4: torna il mistero sui personaggi ma in una diversa sfera temporale mediante i flashforward, i misteri dell’isola si spostano su di un altro piano (Jacob).
– Stagione 5: continua l’incrocio temporale per aumentare il mistero tra i personaggi e il loro destino, gli spostamenti dell’isola passano dalla razionale sfera geografica, alla irrazionale e fantascientifica sfera temporale.
– Stagione 6: i personaggi si sdoppiano in un what if che sposta la narrazione su più dimensioni. Solo nel finale si capisce che la dimensione dei flash è metafisica e spirituale.
Quindi la traiettoria che da spaziale diviene temporale, per poi risolversi in dimensionale e quindi metafisica, non porta a cambi improvvisi e radicali, bensì ad una progressione che cambia alcuni scenari e la base di partenza della serie.
Metatelevisione
Riprendiamo ciò che attirava lo spettatore di fede, cioè i personaggi. Un chirurgo, un truffatore, una coppia sposata, un’avventuriera, una ragazza madre, un musicista tossico, un torturatore iracheno, un miliardario nerd con problemi di alimentazione: questi e altri sono i profili che vengono posti sin dall’inizio in un’isola apparentemente deserta, in seguito ad un disastro aereo.
Sarebbe stato facile, soltanto con una descrizione approssimativa degli stessi, porli come diverse “maschere” utili semplicemente a muovere la trama mistery. Oltre che facile, sarebbe stata anche la scelta più immediata e semplice. L’approfondimento che viene riservato ai vari personaggi ha quindi una ragion d’essere.
Nel finale, il padre di Jack ricorda come tutta l’esperienza sull’Isola abbia segnato le vite di tutte le varie persone coinvolte. Il loro rapportarsi è stata la svolta in quelle che erano vite più o meno ordinarie, sicuramente non felicissime. Non sono quindi tutti morti, come qualcuno ha superficialmente azzardato: piuttosto, tutti moriranno. Ma questa, si sa, non potrà mai essere una gran sorpresa (Six Feet Under insegna). Il finale sull’isola ci regala il toccante sacrificio di Jack, ma alcuni personaggi riusciranno anche a lasciare l’isola. Kate può essere morta a più di 90 anni, come può essere morta pochi minuti dopo il decollo di quell’aereo aggiustato con lo sputo.
La dimensione in cui si trovano per tutta la sesta stagione rappresenta un non-luogo senza tempo, un “dopo” relativo al tempo contorto ma ben delimitato e cronologicamente preciso di tutta la serie (dove finiscono i personaggi di una serie TV quando questa finisce e loro non hanno più ragione di esistere? Ve lo siete mai chiesti?).
Che messaggio passa alla fine, quindi? I momenti belli, meno belli, ma comunque intensi della vita dei personaggi sono ciò che poi è rimasto. Finita la vita terrena, non è importante il traguardo finale, quanto il percorso. Cosa ne trae quindi lo spettatore? La “conoscenza” che fa con le figure fittizie della serie, le sensazioni che prova durante le loro vicende: ciò non finirà mai ed è stato il vero marchio di Lost, più che qualsiasi possibile soluzione. Come detto prima, quindi, l’Isola e i suoi misteri sono esclusivamente un mezzo per favorire il percorso di formazione di un multietnico, vario e ambiguo gruppo umano. Gruppo umano che risulta fondamentale per lo spettatore e per il suo percorso lungo sei stagioni.
E i misteri che la sceneggiatura ci pone davanti?
Mistero: un telefilm di altra dimensione
Da come sono state presentate le precedenti tesi, sembra quasi che l’unica cosa importante sia la crisi coniugale superata tra Jin e Sun, o il ruolo fondamentale di Juliet nella risoluzione del triangolo Jack-Kate-Sawyer: un po’ poco se il tutto è ambientato in un’isola che non esiste nelle cartine geografiche. Niente di tutto questo. I misteri ci sono, sono importanti e sono il motore dell’intera trama, oltre che dell’interesse che porta lo spettatore ad arrivare alla fine.
Tuttavia è proprio il DNA della serie ad essere composto da misteri: una loro risoluzione totale avrebbe potuto non solo deludere in maniera ancora più irrimediabile parte degli spettatori, bensì ribaltare e stravolgere la natura stessa dello show.
Dal mistero sugli altri abitanti dell’Isola, al dualismo Jacob/Uomo Nero, anche i misteri subiscono un’evoluzione al pari dei personaggi. Le risposte arrivano in maniera esplicita, implicita, o non arrivano proprio. Una cosa sola è certa: il senso di tutto quanto non è afferrabile e concepibile a dimensione umana e terrena. Questo vale per i personaggi, questo vale per gli spettatori, sempre volendo seguire il parallelismo metatelevisivo di cui si è già parlato.
Ciò che ci dice il finale è che i personaggi concludono (o continuano) oltre la vita la loro esperienza insieme, e poco importa loro della sorte dell’Isola, della sorte del conflitto biblico tra i due fratelli, forse molto semplicisticamente introdotti e presentati nello show.
E gli spettatori? Gli spettatori sono posti nella condizione di ritenere la presenza di misteri, o meglio la mancanza di una conoscenza totale dell’universo narrativo in questione, come elemento a priori di tutta la storia (esattamente come la presenza di vampiri in Buffy The Vampire Slayer).
Se quindi nella prima stagione il mistero poteva riguardare la presenza o meno di altra gente sull’isola, nell’ultima stagione si arriva a misteri di natura mistica e sovrannaturale. Non si discute sulla differenza qualitativa tra i due esiti.
E alla fine quindi risulta difficile, anche comprensibilmente, trasportare una sceneggiatura composta da “fatti”, come un qualsiasi giallo, verso letture simboliche, metanarrative e citazioniste.
Da notare, con un plauso agli autori, come l’intera vicenda spirituale/metafisica sia stata affrontata con piglio estremamente “laico”. O meglio, senza una direzione religiosa ben precisa. La presenza di stilemi universali (l’Isola può apparire come un Purgatorio, così come l’altra dimensione della sesta stagione), riguardanti credi spirituali, si sposa alla perfezione con l’insieme di citazioni letterarie che si susseguono per tutta la serie, facendo così di Lost un’opera pop totale.
Opera pop in quanto collage di riferimenti e citazioni più o meno culturali, opera pop in quanto fautrice di radicali schieramenti, opera pop amata e opera pop odiata.
Quanto ti è piaciuta la puntata?
0
Nessun voto per ora
Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.
Io ho sempre letto nei personaggi di Lost un eterno conflitto con i rispettivi padri, risolto il quale per ognuno di loro è arrivata la "fine" (reale o metaforica). Infatti Jack è stato l'ultimo. Solo ad un personaggio mi pare non ci fosse questo conflitto, e mi pare fosse Sahid.
Interessante come chiave di lettura. Sahid mi pare avesse un flashback dove ammazzava una gallina per non farlo fare al fratello. È anche vero che per esempio la risoluzione di sawyer con il padre non avviene proprio alla fine. Però sì, Lost ha veramente la possibilità di essere letto in milioni di modi.