Una rapida ed efficace sintesi di quanto visto finora nei primi tre episodi rilasciati in blocco da Hulu è in realtà disponibile online da molto tempo. Risale a marzo di quest’anno, infatti, un articolo pubblicato dal New York Times e scritto dall’autrice del romanzo originario, Margaret Atwood, su alcuni dei pensieri che l’hanno accompagnata dalla creazione del libro fino ad oggi. Alcuni dei dettagli che la serie ha finora voluto lasciare impliciti vengono così alla luce nelle parole della scrittrice.
Il nome della protagonista quindi non è solo – come già vi avevamo anticipato nella recensione del pilot – il simbolo di un possesso materiale, ma anche il simbolo di un’espiazione e di un sacrificio, letteralmente, di un’offerta. Un rituale sacrificale di massa, dove la libertà di Offred, la libertà di Ofglen e con loro la libertà di tutte le donne viene immolata sull’altare per permettere la nascita e lo sviluppo di una nuova società, attualizzando le usanze barbare e primitive dell’età arcaica che erano solite fondare le loro civiltà nel sangue e nel conflitto.
E di sangue, in questo episodio tre, ne scorre inevitabilmente molto. Continuando su quella stessa struttura binaria e dialogica su cui il serial aveva cominciato la sua corsa, passato e presente si intrecciano senza soluzione di continuità tra la vita strappata ai manifestanti in favore delle donne, la piccola Angela strappata dalle mani di Janine e il figlio negato a Serena Joy in quel ritardo che dà titolo al tutto. Un episodio tinto di rosso, rosso come le vesti delle ancelle, rosso come Maria Maddalena, contrapposta nell’ennesimo simbolo religioso alla Madonna e al suo vestito blu, usato invece dalle mogli dei comandanti, immacolate e vergini, ma non per questo meno addolorate per la vergogna a cui sono anch’esse schiave. E il simbolismo religioso è forse la cifra stilistica più perturbante di questo nuovo show. Tra lo spettatore e i nazisti di The Man In The High Castle c’era una sottile linea di divisione storica e comportamentale che non arrivava allo scandalo, scandalo a cui riesce invece The Handmaid’s Tale raccontando una distopia del quotidiano, estremizzando un aspetto che nel bene e nel male ha fatto la storia dell’Occidente come lo conosciamo. Proprio quest’aspetto porta a una domanda fondamentale che la Atwood si pone nell’articolo di cui sopra e alla quale proprio questo episodio cercherà di dare risposta: “Is The Handmaid’s Tale antireligion?“.
Aunt Lydia: “Remember your scripture. Blessed are the meek.”
Offred: “And blessed are those who suffer for the cause of righteousness, for theirs is the Kingdom of Heaven. I remember.”
A una visione superficiale del tutto, la risposta sarebbe stata scontata ma in questo caso non è solo il diavolo a nascondersi nei dettagli. Così se da un lato c’è una società fortemente teocratica, la cui organizzazione è presa pari pari dalla Bibbia e che addirittura giudica come reato l’omosessualità prendendo anacronisticamente spunto dalla Lettera di San Paolo ai Romani, dall’altro non bisogna dimenticare come insieme ad un membro della comunità LGBT e ad un membro della comunità scientifica si sia visto lungo la strada del fiume, nel pilot, anche un prete. E ancora, l’ispirazione per la distopia che schiavizza Offred è la stessa ispirazione per il suo ritrovato coraggio e per la sua ritrovata libertà, riflesse nelle parole riportate qui sopra. Quel “I remember” è la denuncia più forte che si possa fare nei confronti di una verità trasformata a proprio piacimento come comoda scusante per una crudeltà immane. “I remember” che non è sempre stato così. “I remember” che il vostro dio non può esistere davvero e che tutto questo è solo una menzogna.
La stessa ambiguità di fondo la si può poi scorgere anche in tutti gli altri aspetti dell’episodio e della serie in generale. Tutti i personaggi che convergono intorno a casa Waterford – Serena Joy in particolare, divisa tra invidia ed empatia, speranza e rancore; ma anche l’autista Nick di cui ancora non si conosce il ruolo preciso, così come lo stesso Comandante, grande assente di puntata – mostrano questa duplicità comune ai grandi temi di cui The Handmaid’s Tale si avvolge. Anche il femminismo, forse in modo più leggero, viene riletto allo stesso modo: la forza che permette il sorgere della prima ribellione alla nuova dittatura è la stessa forza che ferisce Luke, il marito di June, colpevole di averla troppo amata.
In che modo allora reagire a questa ammaliante ambiguità? Come già scritto nelle precedenti recensioni, l’importante cornice che regge questo meraviglioso e disturbante quadro è una regia attenta ed intimista. Reed Morano, a cui è stata affidata la direzione di tutti questi primi tre episodi, ha indubbiamente il grande merito di aver preso uno stilema classico della narrazione televisiva – il primissimo piano sui personaggi – e di averlo trasformato in una specifica autoriale, riuscendo a raccontare i fatti senza quasi farli vedere, scegliendo invece di mostrare in controcampo le reazioni e le emozioni di chi vi sta assistendo. Tutto questo sfocia come si può capire in una grande responsabilità (anche) per lo spettatore. La cosa più importante non è quel che sta succedendo, ma se si è in grado di esprimere un giudizio su quanto appena visto.
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Birth Day 1×02 | ND milioni – ND rating |
Late 1×03 | ND milioni – ND rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.