“When people use my religion to justify this shit, it affects me. I assure you that nothing I do is for your benefit. I work for the U. S. government and I live by my own conscience.”
Era prevedibile che l’inserimento di un personaggio come Ali avrebbe trovato prima o poi riscontro in qualche scena ad esso collegata dove la questione della sua etnia (o, banalmente, del colore della sua pelle) prendesse spazio. Non si è dovuto attendere nemmeno troppo, contando che già nella scorsa puntata la parentesi era stata leggermente aperta da una breve ed interlocutoria battuta durante una riunione.
Il titolo della puntata apre in maniera definitiva la porta a questa tematica, dando quindi il compito a agli sceneggiatori (ed alla regia) di presentarlo in maniera adatta: ecco quindi che con un saggio e continuativo cambio di scena vengono presentati due diversi (ma comuni) modi di intendere la religione. Da una parte abbiamo John che ritorna in chiesa nonostante lui stesso abbia ribadito più volte come il suo rapporto con il Credo sia complicato; dall’altra parte Ali viene invitato negli UK dove, probabilmente più per spiare che per un ritorno di religiosità, si insinua in una moschea.
Il titolo, “Losing My Religion”, cozza con quanto effettivamente mostrato in scena, nonostante sia utile a richiamare la tematica: John ed Ali sono due personaggi il cui credo religioso vacilla ormai da tempo e risulta essere per loro un qualcosa di morto e sepolto, ma per motivi diversi si ritrovano a riscoprirlo. Ed entrambi, sempre per motivi diversi, proprio da questa riscoperta rimangono scottati nel profondo.
“I have two jobs here. One is to lead investigations into what’s already happened. That’s going on in Africa right now. Okay?
The second, and maybe the more important one, is to figure out what happens next so we can stop it.
What I need you for right now is the second. Where’s the place in the world that has the highest concentration of al‐Qaeda other than Afghanistan? Where they funnel media contact with the outside world.”
Nonostante sia indubbio quali siano i personaggi principali della serie, fa piacere notare come anche i comprimari ricevano un minutaggio alto e valido per approfondire ulteriormente altri rami della narrazione: è questo il caso di Bill Camp (The Leftovers, Boardwalk Empire, Manhattan) che interpreta Robert Chesney. Lo spazio che gli viene concesso non risulta esagerato o fuori luogo: la parentesi sentimentale che lo coinvolge non fatica a trovare terreno fertile nell’empatia dello spettatore che per forza di cose si ritrova connesso ed in sintonia con il devastante e mesto silenzio di Nairobi, rotto qui e là solamente da dei richiami di aiuto e soccorso, conseguentemente all’attacco terroristico.
La poetica narrativa non si ferma semplicemente alla musicalità e ad un sapiente utilizzo del minutaggio dei personaggi, ma riesce a trovare riscontro anche visivamente nel momento in cui la giovane agente dell’FBI si reca all’ospedale per interrogare i sopravvissuti e carpire quanto più possibile da chiunque riuscisse anche “solo a muovere le labbra”.
L’arrivo, la permanenza e gli “interrogatori” risultano devastanti sia per la giovane, sia per lo spettatore che viene immerso nel complicato contesto con un abile cambio tra campo e controcampo nelle riprese. Per gli interrogatori risulta sapiente il filo conduttore che la regia ha deciso di mettere in piedi ed evidenziare. Fatta esclusione per l’ultimo uomo interrogato, che permette alla trama ed al caso di procedere in una precisa direzione, tutti gli altri hanno un elemento che li accomuna: le persone che raccontano e descrivono l’attacco hanno gli occhi coperti. Una scelta di questo tipo rappresenta utile per mantenere la concentrazione dello spettatore non su chi sta parlando, ma su cosa stia venendo effettivamente raccontato: la distruzione e la morte non hanno volti precisi e delineati perché hanno colpito chiunque in maniera indifferente a Nairobi, quindi ecco che gli occhi vengono coperti, per scelta registica, ed ecco che di conseguenza l’attenzione viene rivolta in maniera totale al racconto. L’importanza visiva si piega all’importanza del contenuto e del racconto.
Brutale ma quanto mai accurata, la puntata si conclude con l’opinione pubblica americana “distratta” dal caso Lewinsky. Il termine distratta non deve fare intendere che i due avvenimenti abbiano importanza diversa a discapito dell’affaire che scosse l’America, bensì è qui inteso come termine per far notare come dei fatti di Nairobi ben poco spazio venga concesso nei media, dove viene invece analizzato in ogni singolo particolare il sexgate. E’ questo un fattore comune nel momento in cui la morte trova spazio in luoghi distanti idealmente e fisicamente da noi, risultando difficile riuscire ad empatizzare e provare un qualche tipo di sentimento forte al riguardo.
Ed anche in questo la serie continua con il proprio racconto attuale e vero, tangibile e concreto. Se non si soffermasse in maniera così ossessiva sul sesso e sfruttasse in certi casi una musicalità dubbia sarebbe una benedizione, ma visto che così non è tanto vale rimandare il voto, sperando che prima o poi questo salto venga a tutti gli effetti portato in essere dalla serie.
“It’s the best thing that could have happened to this country. The White House will be desperate to turn people’s attention away from this story, right? We can humbly be of service. We’re gonna finally get Clinton to pull the fucking trigger on al‐Qaeda.”
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Now It Begins… 1×01 | ND milioni – ND rating |
Losing My Religion 1×02 | ND milioni – ND rating |
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.