“Isn’t the pleasure of a story discovering the ending by yourself, Bernard?”
Nel 1982 usciva nei cinema di tutto il mondo Blade Runner, il capolavoro di Ridley Scott tratto da un romanzo di Philip K. Dick. La pellicola, a cui questa serie deve molto, ha avuto la capacità di imprimersi nell’immaginario collettivo con un’estetica particolare e con una meta-letterarietà che ancora oggi fa scuola.
Uno dei punti che più ha messo in discussione la critica e i numerosi studi che sono stati fatti al riguardo è sempre stato quello del punto di vista che fa da linea narrativa a tutta la storia.
Infatti, la questione se Rick Deckard (Harrison Ford) sia o no un androide lascia sottintendere una questione molto più complessa che sta dietro questo annoso dilemma (che il film di Villeneuve ha completamente tralasciato ed è per questo che rimane un film mediocre rispetto all’originale): chi è che crea veramente empatia con lo spettatore nella storia? Gli umani o gli androidi?
La risposta che verrebbe più spontanea è la prima poiché Rick Deckard viene presentato all’inizio come essere umano e il film tratta del tema delle macchine che, ad un certo punto, assumono una coscienza tale da diventare simili in tutto agli esseri umani, fino a volersi sostituire a loro (metafora di una tecnologia che, già negli anni 80, cominciava ad acquisire un potere tale da diventare una minaccia).
Ma qui sta il bello del film di Scott: il vero punto di vista, nel film, è quello degli androidi.
Sono loro ad essere la vera metafora dell’essere umano. Sono i loro comportamenti ad essere quelli “più umani”, ad avere una coscienza propria e proprio in nome di questa loro acquisita autonomia cominciano a voler riscrivere le proprie regole (mentre i presunti esseri umani seguono le regole come dei perfetti automi).
È lo spettatore stesso, dunque, a diventare metafora vivente degli androidi del film (e non viceversa), in un rovesciamento di ruoli che è, allo stesso tempo, affascinante e inquietante. Il regista non fa che guidare lo spettatore e fargli pensare quello che, in realtà, lui vuole che pensi.
Tutto questo preambolo su Blade Runner per dire che, anche in “Les Écorchès” il meccanismo è lo stesso.
Anzi si può tranquillamente affermare che i 60 minuti di episodio sono la riproposizione perfetta dei temi bladerunneriani declinati su piccolo schermo.
Utilizzando come escamotage il graditissimo ritorno di Ford (un immenso Antony Hopkins) l’episodio si spinge in un’ampia riflessione su quanto la serie finora ha fatto vedere, mescolando scene di alta tensione ed action pura con sequenze dialogiche di alto livello, come mai si era visto finora.
E la morale di tutti i discorsi di Ford è solamente una: tutto quanto è stato fatto vedere finora era tutto calcolato.
Calcolato da una mente perversa e contorta che ha giocato (come un dio sadico) con i desideri e le aspettative degli ospiti di Westworld e delle attrazioni. Tutto per il puro piacere della narrazione.
Il fatto che la rivolta delle attrazioni sia stata pensata e realizzata da Ford con la complicità (involontaria) di Bernard ribalta completamente quanto visto finora. C’erano già state ovviamente delle supposizioni e delle teorie al riguardo, soprattutto perché questo ha sempre rappresentato il vero “buco di sceneggiatura” di tutta la storia: com’è stato possibile che macchine pensate per essere al servizio delle persone improvvisamente impazzissero del tutto fino a ribellarsi ai propri creatori?
L’episodio, dunque, funge da mega-plot twist in cui viene colmato tutto questo vuoto fino ad arrivare la cliffhanger finale, il quale, come al solito, lascia più dubbi che risoluzioni (forse è stato un modo da parte di Bernard per giustificare i propri errori commessi?) poiché è nella stessa natura della serie mescolare sempre realtà e finzione.
Ma se la tesi mostra dall’episodio fosse corretta, si può dire che lo spettatore è stato trattato dagli autori esattamente come le attrazioni sono state utilizzate dai loro creatori. Si replicherebbe così l'”effetto Blade Runner” in cui il vero parco a tema è stata la serie stessa in cui lo spettatore è stato manipolato (nel senso che è stato portato a credere a certe cose) solo perché, secondo il patto di credibilità con l’autore, è stato portato a credere a tutto quello che vedeva, esattamente come le attrazioni.
Il vero “gioco” di Westworld sta tutto in questa capacità, sicuramente non facile, di creare empatia in maniera meta-letteraria.
Questo effetto ovviamente si ha solo con grandi interpreti e con una regia più che ottima.
E qui è sicuramente Anthony Hopkins a brillare su tutti, ma non bisogna dimenticare i grandi momenti di confronto tra gli altri personaggi, due su tutti quello tra Maeve e William/The Man In Black e tra Dolores e Charlotte Hale.
Per quanto riguarda la regia questa, come già detto, si divide tra campi e controcampi (abbastanza classici ma efficaci), nelle sequenze dialogiche, e da uno stile e un ritmo frenetico da videogioco di guerra nelle scene action.
La fotografia poi, anche nelle scene all’aperto, rimane comunque molto fredda e buia contribuendo così a fare della puntata l’episodio più cupo di tutta la serie visto finora, anche per via dei numerosi plot twist interni in cui sembra quasi certa la dipartita di molti personaggi storici della storia.
La tensione perciò rimane sempre costante per tutto il tempo ed esplode nell’ultima sequenza finale in cui tutto viene di nuovo ribaltato e si deve, ancora una volta, aspettare il prossimo episodio per vedere come proseguiranno le vicende.
D’altra parte, come direbbe lo stesso Ford, il bello di una storia non è forse vedere come va a finire?
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Phase Space 2×06 | 1.11 milioni – 0.4 rating |
Les Ecorchés 2×07 | 1.39 milioni – 0.5 rating |
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Laureato presso l'Università di Bologna in "Cinema, televisione e produzioni multimediali". Nella vita scrive e recensisce riguardo ogni cosa che gli capita guidato dalle sue numerose personalità multiple tra cui un innocuo amico immaginario chiamato Tyler Durden!