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Nico Jr.: “I have to show them that I’m not afraid.”
Nico Sr.: “The only thing you’re gonna prove by that is that you’re stupid. It is intelligent to be afraid.”
Bad Blood è stata presentata come una miniserie sul boss italo-canadese Vito Rizzuto, in particolare sui suoi ultimi anni di vita, segnati dalla prigione, dai lutti familiari e dalla conseguente vendetta. Effettivamente nel pilot è il padrino di Montréal ad essere al centro della scena, l’individuo che attira quasi totalmente a sé le attenzioni del pubblico. Silenzioso al suo fianco, però, compare fin da subito un altro personaggio, dallo sguardo glaciale e i modi apparentemente pacati: Declan Gardiner. Con i due successivi episodi si chiarisce senza ombra di dubbio la posizione dell’irlandese all’interno della narrazione: da un lato egli ne è il narratore, anche se la sua voce fuori campo è usata sapientemente, in maniera ridotta e senza risultare invasiva (come succedeva invece in certi frangenti di Narcos, serie a cui Bad Blood sembra rifarsi); dall’altro ne è di fatto il co-protagonista, al centro della scena tanto se non più di Vito (soprattutto nel secondo episodio, “Pacifier”).
Declan è l’uomo si è votato completamente al suo boss e alla sua famiglia, è il fedele servitore che sembra quasi vivere solo per loro e per il proprio lavoro, come se fosse un samurai del Giappone feudale, e difatti in tre episodi non si sono visti nemmeno per un secondo una moglie o dei figli, né tanto meno altri parenti. E’ un sicario e all’occorrenza si sporca le mani per il suo capo (lo si è visto nel primo episodio con Rejean e lo si vede nel secondo col sicario inviato dalla ‘Ndrangheta, in un flashback del 1994), ma è anche un uomo d’onore che rispetta i vecchi patti e un diplomatico che sa trovare il giusto equilibrio tra severità e indulgenza, con gli amici ma soprattutto coi nemici. Soprattutto, è un uomo drammaticamente in bilico tra il mondo dei sottoposti della famiglia Rizzuto e gli affetti più cari di Vito: talmente vicino al boss da poter frequentare abitualmente la sua casa, ma comunque privo di una parentela di sangue che lo ponga davvero allo stesso livello del padre Nico e del figlio Nico Jr. Proprio il dialogo in carcere tra Declan e Vito, dopo l’agguato contro Nico Jr., fa emergere chiaramente questa posizione: Vito sfoga la rabbia per il ferimento del figlio su Declan (che colpa non ha, anzi ha fatto di tutto per proteggerlo), giustificando gli errori del proprio rampollo e chiarendo brutalmente all’irlandese che accoglierlo in casa sua, alla sua stessa tavola, e fargli regali costosi non lo hanno reso qualcosa di più di un semplice impiegato che debba rivolgersi al suo superiore con un “yes, sir” o “yes, boss”. In quel momento, ogni speranza di Declan di aver trovato nei Rizzuto una vera famiglia (“You’re my family now” aveva detto a Vito in un altro flashback) si infrange e Vito smette di essere un amico o un fratello, torna a essere un capo, un datore di lavoro a cui rendere conto del proprio operato come un qualsiasi picciotto. Kim Coates è magistrale nel rendere anche solo con uno sguardo, con un’espressione, con un sorriso di facciata che si stempera nell’amarezza la psicologia e i tormenti del suo personaggio.
L’incarcerazione di Vito, com’è prevedibile, mina l’intero fragile equilibrio creato dall’italo-canadese nel corso degli anni a Montréal, ma a creare davvero problemi è la sconsiderata leadership di Nico Jr., il figlio finora tenuto fuori dagli affari di mafia che is pone a capo della famiglia Rizzuto in nome del proprio sangue. Purtroppo per lui, Nico Jr. non è il Michael Corleone di turno che subentra al padre salvando e anzi facendo prosperare la famiglia: è un giovanotto impulsivo e privo di controllo, che passa le sue serate in discoteche e locali dove rappresenta un facile bersaglio per le famiglie rivali, che brucia vivi coloro che rifiutano di pagarlo e che infrange senza problemi i patti stipulati dal padre per guadagnare qualche soldo in più. Col suo comportamento è capace di inimicarsi in un sol colpo l’edilizia di Montréal, i Bikers, gli Irlandesi e gli Haitiani e solo le doti diplomatiche di Declan salvano i Rizzuto dal disastro; e in generale è Declan a mettere una pezza su ogni bravata ed errore di Nico Jr., che per tutta risposta, sentendosi minacciato nella propria leadership, cerca continuamente lo scontro e finisce persino per cacciarlo da casa sua. Se l’obiettivo di Vito era quello di mantenere un basso profilo legalizzando poco a poco le proprie attività, il figlio fa l’esatto opposto.
Sull’operato di questo scellerato principe che smania per diventare re (la metafora è usata spesso nei dialoghi) vigila attentamente nonno Nico, l’originario boss che ha “abdicato” in favore di Vito anni prima e che interviene all’occorrenza, ora con saggi consigli, ora imponendo la propria volontà. Paul Sorvino, attore noto per il suo ruolo di Paulie Cicero nel gangster movie Goodfellas, è semplicemente perfetto nei panni dell’anziano patriarca dei Rizzuto, venerabile e autorevole boss di altri tempi che si esprime inframmezzando frasi in italiano e in dialetto all’inglese e che alle stravaganze di figlio e nipote contrappone una sobrietà e una prudenza che ormai appartengono ai vecchi tempi.
Quanto a Vito è nel terzo episodio, “Feast or Famine”, che i riflettori tornano a puntarsi su di lui e sulla sua difficile prigionia. Il boss, che a Montréal era rispettato e inattaccabile (infatti aveva in pugno la polizia ed è stata l’americana FBI ad arrestarlo), ma all’interno delle quattro mura del carcere è solo un prigioniero come gli altri, un vecchio e grassoccio carcerato vulnerabile, da picchiare e pestare perché si rifiuta di omaggiare un avanzo di galera che fuori dalla prigione dovrebbe inchinarsi al suo cospetto. Come Coates e Sorvino, anche Anthony LaPaglia dà prova di grande bravura nei panni del boss, mantenendo una pacatezza e un contegno quasi ascetici, senza mai perdere la calma o alzare troppo la voce; ed è questo a rendere il personaggio ancora più inquietante dei tanti mafiosi e criminali a cui il pubblico attuale è abituato, che sbraitano, tirano subito fuori le pistole, imprecano e minacciano. Vito Rizzuto ha più a che fare col Don Vito Corleone di Marlon Brando che con i capos di Narcos, per citare ancora una volta la serie crime a cui è facile accostare istintivamente Bad Blood. La sobrietà di Vito è tale che persino le scene in cui viene a sapere della morte del figlio e si ritira in cella non si traducono in un pianto disperato e patetico, perché l’uomo mantiene il proprio contegno, lascia trasparire il dolore e la sofferenza dagli sguardi, dalle espressioni, dai piccoli gesti piuttosto che dalle lacrime.
Unico neo di questi episodi che non hanno nulla da invidiare alle produzioni crime statunitensi è la sottotrama “rosa” incentrata sulle due amanti del boss, Michelle e Sophie, rivali che si contendono il primato sul cuore dell’uomo. Si spera solo che la scena in cui si azzuffano in un negozio di abbigliamento (senza che qualcuno intervenga né durante la lotta né quando Michelle si ritira, lasciando una Sophie sanguinante riversa sul pavimento) sia il massimo di trash che si vedrà in questa miniserie.
Declan è l’uomo si è votato completamente al suo boss e alla sua famiglia, è il fedele servitore che sembra quasi vivere solo per loro e per il proprio lavoro, come se fosse un samurai del Giappone feudale, e difatti in tre episodi non si sono visti nemmeno per un secondo una moglie o dei figli, né tanto meno altri parenti. E’ un sicario e all’occorrenza si sporca le mani per il suo capo (lo si è visto nel primo episodio con Rejean e lo si vede nel secondo col sicario inviato dalla ‘Ndrangheta, in un flashback del 1994), ma è anche un uomo d’onore che rispetta i vecchi patti e un diplomatico che sa trovare il giusto equilibrio tra severità e indulgenza, con gli amici ma soprattutto coi nemici. Soprattutto, è un uomo drammaticamente in bilico tra il mondo dei sottoposti della famiglia Rizzuto e gli affetti più cari di Vito: talmente vicino al boss da poter frequentare abitualmente la sua casa, ma comunque privo di una parentela di sangue che lo ponga davvero allo stesso livello del padre Nico e del figlio Nico Jr. Proprio il dialogo in carcere tra Declan e Vito, dopo l’agguato contro Nico Jr., fa emergere chiaramente questa posizione: Vito sfoga la rabbia per il ferimento del figlio su Declan (che colpa non ha, anzi ha fatto di tutto per proteggerlo), giustificando gli errori del proprio rampollo e chiarendo brutalmente all’irlandese che accoglierlo in casa sua, alla sua stessa tavola, e fargli regali costosi non lo hanno reso qualcosa di più di un semplice impiegato che debba rivolgersi al suo superiore con un “yes, sir” o “yes, boss”. In quel momento, ogni speranza di Declan di aver trovato nei Rizzuto una vera famiglia (“You’re my family now” aveva detto a Vito in un altro flashback) si infrange e Vito smette di essere un amico o un fratello, torna a essere un capo, un datore di lavoro a cui rendere conto del proprio operato come un qualsiasi picciotto. Kim Coates è magistrale nel rendere anche solo con uno sguardo, con un’espressione, con un sorriso di facciata che si stempera nell’amarezza la psicologia e i tormenti del suo personaggio.
L’incarcerazione di Vito, com’è prevedibile, mina l’intero fragile equilibrio creato dall’italo-canadese nel corso degli anni a Montréal, ma a creare davvero problemi è la sconsiderata leadership di Nico Jr., il figlio finora tenuto fuori dagli affari di mafia che is pone a capo della famiglia Rizzuto in nome del proprio sangue. Purtroppo per lui, Nico Jr. non è il Michael Corleone di turno che subentra al padre salvando e anzi facendo prosperare la famiglia: è un giovanotto impulsivo e privo di controllo, che passa le sue serate in discoteche e locali dove rappresenta un facile bersaglio per le famiglie rivali, che brucia vivi coloro che rifiutano di pagarlo e che infrange senza problemi i patti stipulati dal padre per guadagnare qualche soldo in più. Col suo comportamento è capace di inimicarsi in un sol colpo l’edilizia di Montréal, i Bikers, gli Irlandesi e gli Haitiani e solo le doti diplomatiche di Declan salvano i Rizzuto dal disastro; e in generale è Declan a mettere una pezza su ogni bravata ed errore di Nico Jr., che per tutta risposta, sentendosi minacciato nella propria leadership, cerca continuamente lo scontro e finisce persino per cacciarlo da casa sua. Se l’obiettivo di Vito era quello di mantenere un basso profilo legalizzando poco a poco le proprie attività, il figlio fa l’esatto opposto.
Sull’operato di questo scellerato principe che smania per diventare re (la metafora è usata spesso nei dialoghi) vigila attentamente nonno Nico, l’originario boss che ha “abdicato” in favore di Vito anni prima e che interviene all’occorrenza, ora con saggi consigli, ora imponendo la propria volontà. Paul Sorvino, attore noto per il suo ruolo di Paulie Cicero nel gangster movie Goodfellas, è semplicemente perfetto nei panni dell’anziano patriarca dei Rizzuto, venerabile e autorevole boss di altri tempi che si esprime inframmezzando frasi in italiano e in dialetto all’inglese e che alle stravaganze di figlio e nipote contrappone una sobrietà e una prudenza che ormai appartengono ai vecchi tempi.
Quanto a Vito è nel terzo episodio, “Feast or Famine”, che i riflettori tornano a puntarsi su di lui e sulla sua difficile prigionia. Il boss, che a Montréal era rispettato e inattaccabile (infatti aveva in pugno la polizia ed è stata l’americana FBI ad arrestarlo), ma all’interno delle quattro mura del carcere è solo un prigioniero come gli altri, un vecchio e grassoccio carcerato vulnerabile, da picchiare e pestare perché si rifiuta di omaggiare un avanzo di galera che fuori dalla prigione dovrebbe inchinarsi al suo cospetto. Come Coates e Sorvino, anche Anthony LaPaglia dà prova di grande bravura nei panni del boss, mantenendo una pacatezza e un contegno quasi ascetici, senza mai perdere la calma o alzare troppo la voce; ed è questo a rendere il personaggio ancora più inquietante dei tanti mafiosi e criminali a cui il pubblico attuale è abituato, che sbraitano, tirano subito fuori le pistole, imprecano e minacciano. Vito Rizzuto ha più a che fare col Don Vito Corleone di Marlon Brando che con i capos di Narcos, per citare ancora una volta la serie crime a cui è facile accostare istintivamente Bad Blood. La sobrietà di Vito è tale che persino le scene in cui viene a sapere della morte del figlio e si ritira in cella non si traducono in un pianto disperato e patetico, perché l’uomo mantiene il proprio contegno, lascia trasparire il dolore e la sofferenza dagli sguardi, dalle espressioni, dai piccoli gesti piuttosto che dalle lacrime.
Unico neo di questi episodi che non hanno nulla da invidiare alle produzioni crime statunitensi è la sottotrama “rosa” incentrata sulle due amanti del boss, Michelle e Sophie, rivali che si contendono il primato sul cuore dell’uomo. Si spera solo che la scena in cui si azzuffano in un negozio di abbigliamento (senza che qualcuno intervenga né durante la lotta né quando Michelle si ritira, lasciando una Sophie sanguinante riversa sul pavimento) sia il massimo di trash che si vedrà in questa miniserie.
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“Pacifier” e “Feast or Famine” confermano le ottime impressioni del pilot e, come solo le grandi storie di mafia sanno fare, coniugano l’istanza documentaristica con tematiche universali come la famiglia, il senso di appartenenza e il dolore.
Scar Tissue 1×01 | ND milioni – ND rating |
Pacifier 1×02 | ND milioni – ND rating |
Feast Or Famine 1×03 | ND milioni – ND rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.