“I heard what you said about country over party, Mr. President. I took it to heart. And when I saw you stand up to Senator Bowman yesterday, Mrs. Kirkman, it reminded me that I could, too. I’m sure I’ll take flack for it, but I won’t give in, and you shouldn’t either. Keep doing what you’re doing.”
Come abbiamo scritto diverse volte, l’evoluzione del personaggio Tom Kirkman (nonostante si tratti di una figura completamente inventata ex novo) ha seguito di pari passo l’evoluzione della politica americana, ormai da qualche mese sotto i riflettori di tutto il mondo. Se alla sua nascita infatti era solo un tentativo un po’ fiction di alleggerire i toni di una campagna presidenziale a dir poco incandescente, dalla mid-season premiere è diventato piuttosto un manuale vivente di istruzioni, un Presidente estremamente idealizzato (e checché se ne dica, non esattamente un indipendente) che nell’universo finzionale in cui si ritrova a dover lavorare, appunto cerca di essere un faro e un monito per chiunque voglia recuperare il senso più profondo della democrazia americana. Come a dire: non è un caso che proprio durante la presidenza Trump (anche solo, al di là di ogni antipatia soggettiva, per la sua appartenenza al Partito Repubblicano) il primo argomento dei cento giorni di Kirkman sia la regolamentazione della vendita delle armi. Un compito difficile, sensibilizzare su temi così attuali senza rinunciare allo spirito bipartisan che peraltro dipinge questo episodio a partire dal titolo, ma egregiamente svolto anche grazie ad alcuni supporter character – la Hookstraten e Alex soprattutto. Le due donne sono sicuramente tra i personaggi meglio riusciti che finora questa prima stagione ci ha regalato. Se la prima mantiene fin dai primissimi episodi un gustoso velo di ambiguità, la seconda si sta piano piano rivelando come una continua fonte di sorprese narrative, trasformandosi lentamente da madre e moglie, alla First Lady che tutti vorrebbero, sorpassando non accidentalmente in termini di minutaggio anche quella che doveva essere in origine la “quota rosa” dello show, Hannah Wells.
Finora il rapporto tra i Kirkman è probabilmente la conquista più importante compiuta in questi sedici episodi. Siamo perfettamente a conoscenza che, anche in campo seriale, vale il detto “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”, quindi per il momento si devono continuare a considerare plausibili le teorie che vedono Alex invischiata nel complotto, anche alla luce della sua bravura politica, di cui si prende sempre più consapevolezza puntata dopo puntata. Indubbiamente sarebbe però un gran peccato (considerando quanto si è scritto in apertura di recensione) arrivare a spezzare l’incantesimo che avvolge i coniugi, nessuno succube dell’altro ma fonte di ispirazione e di sostegno per i sogni e i desideri spesso condivisi dai due. “Party Lines” ci mostra infatti una coerenza d’intenti portata avanti sia dal Presidente che dalla First Lady, una vicinanza e una simpatia che travalicano anche l’aspetto più romantico della vicenda. Detto in parole povere: spezzare la relazione che intercorre tra i due, insinuando nel mezzo l’ombra del complotto, romperebbe al tempo stesso quanto costruito finora, esautorando Designated Survivor del suo messaggio simbolico ed educativo più importante.
“There’s enough explosives in here to blow up three Capitols.”
Dopo aver speso così tante belle parole, cosa frena dunque DS dal raggiungere il massimo dei voti? Se si considerasse solo quanto avviene a Washington D.C. infatti, “Party Lines” sfiorerebbe da vicino la perfezione. Non solo per le dinamiche caratteriali di cui abbiamo parlato, ma anche per tutto l’impianto partitico che culmina in una votazione pregna di tensione che, per come lo show ci ha abituato, poteva finire anche diversamente.
Il peso, purtroppo, che grava sulle spalle di questa puntata sta in tutto quello che succede fuori dalla capitale, nello specifico, all’agente Wells. Passi l’escamotage del bunker missilistico nascosto in mezzo al nulla, passi l’agente Atwood che non si capisce come possa prestare servizio dopo il lutto sofferto, passi addirittura che i due non incontrino anima viva a guardia di un arsenale degno della Corea del Nord dei giorni nostri (e quest’ultimo è particolarmente grave). Quello che si fa fatica ad accettare, per il senso di sgradevolezza che porta con sé, è l’aurea di mistero che avviluppa sempre più la cospirazione. Dalla morte di McLeish e consorte, il pubblico non ha più un volto da odiare, capire, di cui dubitare, da conoscere. Questa rivoluzione anonima e senza volto (oltre che poco credibile) rischia seriamente di generare continui momenti morti come quelli affrontati in “Party Lines”: anche da un punto di vista narrativo, deve essere smascherata al più presto. Dopo una prima parte di stagione in cui, in un modo o nell’altro, si era a conoscenza di tutto, adesso ci si ritrova nell’esatta opposta situazione e lo spettatore non è più informato di niente. Sinceramente, non sappiamo bene quale delle due situazioni sia più fastidiosa.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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One Hundred Days 1×15 | 5.20 milioni – 1.1 rating |
Party Lines 1×16 | 5.33 milioni – 1.1 rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.