“Dying| Is an art, like everything else.| I do it exceptionally well.| I do it so it feels like hell.| I do it so it feels real.| I guess you could say I’ve a call.| It’s easy enough to do it in a cell.| It’s easy enough to do it and stay put.|It’s the theatrical.” (Sylvia Plath – Lady Lazarus, citata all’interno dell’episodio)
Trova conclusione qui, dopo settantatre episodi, il primo prodotto originale Netflix: House Of Cards lascia il proprio pubblico dopo che gli ultimi due anni si possono tranquillamente definire come i peggiori per quanto concerne il lato produttivo-pubblicitario della serie.
E’ un finale, come lo è d’altra parte l’intera stagione, che lascia l’amaro in bocca allo spettatore per svariati motivi. Ma il principale è sicuramente l’assenza di Kevin Spacey: Frank Underwood era e rimarrà sempre il personaggio cardine dello show, nonostante queste ultime stagioni avessero lavorato a pieno regime nel fortificare la sua dolce metà, Claire, ultimo tassello del fantomatico castello di carte che Netflix non sembra realmente intenzionata a far crollare in quest’ultimo capitolo del proprio racconto sul mondo della politica.
Sul finire di puntata ci pensa proprio Bill Shepherd a ricordare allo spettatore cosa questa serie abbia cercato di raccontare in tutti questi anni: “They all have one thing in common. Children watching, waiting for the cards to fall.” Questa era la promessa che era stata fatta, in maniera sottintesa, allo spettatore: dov’è il senso di tutto questo lungo peregrinare se il fantomatico castello di carte alla fine non collassa del tutto?
Questa era la promessa che ha spinto lo spettatore a continuare a guardare i consueti bad guy compiere terribili azioni, proprio perché alla fine di tutto, ciò che avrebbero avuto era giustizia ed un’inesorabile caduta nel baratro della vergogna e della rovina (pubblica e non). La versione inglese questo aspetto della storia lo aveva colto ed al proprio pubblico era riuscito a restituire questo crollo strutturale. La versione americana no, anzi, maschera dietro questo suo finale non riuscito un certo giustificazionismo verso Claire, verso ogni sua empia azione e verso ogni suo singolo peccato.
Parliamo di finale non riuscito perché questo è: se si fosse trattato di un finale di stagione probabilmente il giudizio non sarebbe stato così duro, ma dovendo essere un finale di serie ciò che viene mostrato non è e non può essere abbastanza. Non dopo sei stagioni di messa in scena.
“I had to protect the legacy from the man.”
Perché sì…
Volendo esporre in modo imparziale quanto visto durante questo episodio (ma in generale, come ogni recensione conclusiva, per l’intera stagione) occorre fare un po’ di ordine ed iniziare da ciò che ha realmente funzionato.
E’ impossibile non menzionare la bravura e la capacità di magnetizzare l’attenzione del pubblico di attori come Michael Kelly e Robin Wright: i personaggi sono stati (e sono ancora adesso) ben definiti e scritti e la loro trasposizione in scena è forse l’elemento che da solo potrebbe reggere lo show. Si percepisce, ovviamente, l’assenza-presenza di Frank, ma Doug e Claire in più di un’occasione riescono a non farlo rimpiangere. O almeno non troppo.
Claire si mostra alla disperata ricerca di un qualcosa che le possa dar modo di mantenere il controllo in quello che si sta trasformando da un banale bagno di sangue politico sul suolo americano (si pensi alle ultime morti eccellenti dello show) ad una vera e propria guerra nucleare su territorio siriano. Lo show tende, nuovamente, a sottolineare come non ci siano differenze tra Frank e Claire. Anzi, sotto certi aspetti la spietatezza della donna fa raggelare ancor di più il sangue.
Come detto, quindi, ritorna in auge il tema della guerra e del desiderio da parte del Presidente Underwood di nascondere le problematiche del suo mandato dietro una coltre di terrore, paura e pressione psicologica. Un qualcosa che funzionò (4×13), ma che ora come ora non riesce a trovare lo stesso terreno fertile nel quale crescere.
Detto di Claire, bisogna far menzione di Doug e dell’ottima gestione del personaggio: il suo desiderio di vendetta cresce e matura con il progredire della narrazione ma, cosa più importante di tutte, procede di pari passo al suo sconfinato affetto verso Frank Underwood, l’uomo con cui si è sempre sentito in debito nonostante le diatribe personali del passato.
In una particolare scena, poco prima del termine della puntata, sul tavolo di casa Stamper compare il romanzo A Tale Of Two Cities che il braccio destro dell’ex Presidente era solito ascoltare nei pochi momenti di svago che riusciva a ritagliarsi. Il libro rappresenta, tuttavia, un’ottima metafora sia per quanto riguarda la serie, sia per quanto riguarda il personaggio di Doug.
Per quanto riguarda Washington, la differenza percettiva della città se si confrontano realtà e la gestione dell’amministrazione Underwood.
Doug invece può essere visto come una sorta di Sydney Carton (personaggio del romanzo): un uomo disposto a sacrificare qualsiasi cosa per Frank, disposto addirittura a sacrificare la sua stessa vita per assicurarsi che il retaggio ed il nome di Underwood non venga infangato.
Ma è un uomo debole e con molteplici debolezze, Doug. Ed il suo ennesimo cedimento sarà anche l’ultimo.
Dialoghi, musica e l’intensità della puntata aiutano a confezionare un prodotto che, a causa dell’epilogo e di alcuni particolari sparsi durante la puntata, non può convincere totalmente.
“How will you manage to separate yourself from all this shit?”
Perché no…
Quali sono quindi questi particolari che debilitano la puntata?
Tralasciamo per un attimo la questione delle ultime scene, per le quali già una parentesi era stata aperta ad inizio recensione e che andremo ad analizzare ulteriormente più avanti nell’analisi.
Uno degli aspetti negativi rappresenta una deriva di una tematica inserita (a forza?) in questa stagione e che rappresenta in certe occasioni più un voler strizzare l’occhio all’opinione pubblica che altro: il femminismo e la lotta al patriarcato.
Oggi più che mai questo tipo di tematica necessita di trovare spazio all’interno degli show televisivi per dar voce ad una parte oppressa della società. Ma non può essere, quella mostrato in House Of Cards, una messa in scena considerabile come riuscita.
Più di una volta, nelle precedenti puntate, la tematica era apparsa come pura e semplice farsa ed anche in questo capitolo finale la cosa non sembra migliorare: in ogni singola occasione in cui Claire si ritrova ad essere minacciata oppure con le spalle al muro, la donna riconduce il discorso (qualsiasi esso sia) alla tematica femminista ed alla misoginia dell’uomo. La morale che ne esce fuori è distorta, proprio come il personaggio di Claire: tutti i maschi sono cattivi ed odiano le donne. Tutti.
Quando questa tematica sembra non attecchire (o quando si ritrova a doversi interfacciare con le donne del suo Gabinetto) ecco che Claire estrae l’asso dalla manica: la sua gravidanza e la bambina che aspetta.
Claire rappresenta l’evoluzione femminile di quel Francis Urquhart (House Of Cards UK), quando anche lui si ritrovava nella sua fase di declino: sono due persone deliranti, la cui sete di potere ha ottenebrato la mente e le ha rese incapaci di compiere delle scelte giuste e soppesate.
Mark e gli Shepherd continuano a non funzionare come nuovi antagonisti/personaggi secondari: anche se la loro introduzione è stata repentina ed accelerata per via di fattori esterni e non imputabili alla produzione in sé, la loro caratterizzazione risulta essere molto abbozzata e non considerabile come valida e funzionale alla storia.
Il paragone sarà forte, ma House Of Cards fallisce lì dove una produzione come Gomorra, invece, è riuscita egregiamente. Si pensi, infatti, ai nuovi nemici che Ciro e Genny si ritrovano a dover affrontare sia nella seconda, sia nella terza stagione (Sangueblù).
“You’re worse than Frank.”
Cosa lascia al proprio pubblico House Of Cards?
Quando si pensa all’argomento politica nel panorama delle serie tv, il primo esempio che corre subito alla mente è The West Wing. La serie di Sorkin ha rappresentato per anni l’unico vero elemento di carattere seriale che cercasse di addentrarsi dentro ai meccanismi della politica americana. Ma aveva un difetto, ossia si prefiggeva di voler raccontare al grande pubblico come loro stessi avrebbero voluto che fosse la politica. Una sorta di utopia, quindi. Ed è un qualcosa che ha tentato di fare anche in tempi più recenti Designated Survivor.
House Of Cards ha avuto un pregio: quello di voler mostrare sullo schermo come la gente pensa che sia la politica in America e come teme che tutto venga pilotato, orchestrato e organizzato alle spalle del popolo.
La differenza di vedute è lampante, ma proprio come The West Wing, House Of Cards rimarrà a suo modo nella storia della serialità per molteplici motivi.
“Repubblica” è una di quelle parole che è stata presa a calci, sputi e male parole durante tutta questa lunghissima avventura degli Underwood. D’altra parte, la democrazia era sopravvalutata ed il popolo necessitava di un pastore che si alzasse, che si mostrasse forte e risoluto. Ed è quello che, sul finire della seconda stagione, l’America ha ottenuto. E successivamente confermato.
“Repubblica” è una parola che House Of Cards svuota di ogni suo significato e valore mentre decide, puntata dopo puntata, di mostrare al proprio pubblico come i governanti sembrerebbero infischiarsene: niente morale, niente valore umano, ma solo ciniche e spietate risoluzioni. Senza possibilità d’appello.
Le ultime, discutibili, scene del finale
Delle scene conclusive ci sarebbe molto da dire e qualcosa già si è appuntato all’inizio della recensione.
La non-morte di Claire rappresenta il non avverarsi di quella promessa che il titolo della serie faceva intendere. Ma soprattutto rappresenta una decisione non logica con quanto la serie sembrava voler mostrare, ossia che chiunque (ricco o povero, potente o no che fosse) avrebbe avuto ciò che si meritava. Chiunque, nessuno escluso.
E’ d’obbligo sottolineare una cosa, prima che l’analisi venga travisata: verso il personaggio di Claire non c’è antipatia perché è sopravvissuta alla carneficina di quest’ultima stagione. Non può esserci perché si tratta di un personaggio di finzione.
Ma la decisione di tenerla in vita, sapendo che la serie non avrà seguito, significa tagliare le gambe all’intera storia che dal 2013 House Of Cards sta cercando di raccontare.
C’è anche da considerare che questa salvaguardia nei confronti di Claire appare quasi una silenziosa giustificazione rispetto a tutto ciò che Claire stessa ha compiuto, ordito e portato a termine in questi anni di messa in scena. Rappresenta una giustificazione perché, semplicemente, non ha quello che si merita come invece è stato per tutti gli altri personaggi.
Il personaggio di Claire avrebbe meritato o una totale vittoria sotto qualsiasi aspetto (politico o sociale che fosse) oppure una disfatta totale, con la conseguenza che l’intero apparato politico e giuridico degli USA venisse trascinato nell’oblio più totale da lei stessa.
Qualsiasi sviluppo/conclusione diversa da ciò rappresenta un finale inconcludente, una toppa che semplicemente rende monca l’intera narrazione. Non vuole essere questo uno sterile giudizio rassimilabile a “questo finale doveva essere diverso”, tuttavia, molte cose sarebbero dovute essere gestite in maniera differente; non per compiacere il pubblico ma perché la serie stessa nasceva con l’idea di un determinato tipo di storia e basata su di una promessa che, considerato “Chapter 73”, viene spezzata e non mantenuta.
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Chapter 72 6×07 | ND milioni – ND rating |
Chapter 73 6×08 | ND milioni – ND rating |
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.