“Abaye disse: il mondo ha all’interno di ogni generazione non meno di trentasei persone rette che accolgono la Presenza Divina. Come è scritto, felici sono tutti coloro che attendono Lui.”
[Talmud, Sanhedrin 97b]
L’idea giudaica dei Lamed-tad Tzaddikim, i trentasei giusti che comparirebbero in ogni generazione praticando lavori umili e assicurando, con la propria sola esistenza, che Dio non distrugga l’umanità, è alla base di Gospel of Kevin Kevin (Probably) Saves the World, la nuova serie della ABC ideata da Michele Fazekas e Tara Butters, che da ora in poi sarà abbreviata in K(P)SW.
Kevin Flynn, il protagonista, è infatti uno di questi trentasei uomini retti, incaricato direttamente dal Padreterno, tramite l’angelo la guerriera di Dio Yvette, di trovare i suoi trentacinque simili sparsi in giro per il mondo, dispensando nel contempo bontà e felicità tramite abbracci e riscattando un’esistenza non proprio retta, culminata in un tentativo di suicidio. Detta così, la trama sembra un pot-pourri di cose già viste in altre serie, da Touched by an Angel a Joan of Arcadia, da Reaper (creata proprio da Fazekas) alle prime serie fulleriane come Dead Like Me, Wonderfalls e Pushing Daisies, fino a My Name Is Earl: l’incontro con entità sovrannaturali, l’acquisizione di nuovi poteri e di una missione divina, il tentativo di fare disinteressatamente del bene per il prossimo, la commistione tra comedy e drama. Da un lato, K(P)SW va sul sicuro, riciclando meccanismi narrativi sapientemente utilizzati da altre serie, facili da padroneggiare e con incredibili potenzialità; dall’altro, però, questo significa sacrificare freschezza e originalità e rende necessario lavorare alacremente per conferire all’opera una propria identità e trovarle una propria cifra caratteristica che le permetta di scrollarsi di dosso quanto prima l’etichetta di “incrocio tra Il tocco di un angelo, My Name Is Earl e un intero barattolo di miele”.
Non si parla a caso di miele, perché K(P)SW è una serie che rischia di diventare zuccherosa e smielata più del necessario. Il messaggio che vuole trasmettere è senz’altro lodevole: per quanto la vita possa essere dura, per quanto enormi possano essere le difficoltà che affrontiamo quotidianamente, per quanto strazianti possano essere i lutti che immancabilmente ci colpiranno, ci sarà sempre qualcosa nel mondo di cui godere e da apprezzare, anche se magari è qualcosa di piccolo e di apparentemente insignificante che normalmente sfugge, come l’affetto di una sorella o l’abbraccio di uno sconosciuto. Bombardati come siamo continuamente da serie televisive che parlano di mafiosi e di narcotrafficanti, di tiranni sanguinari e di eroici guerrieri, di malati di cancro che si mettono a cucinare metanfetamina e di pubblicitari farfalloni e fedifraghi, insomma il peggio che può esserci a questo mondo (o in mondi di fantasia che fino ad un certo punto ricalcano quello reale), forse si ha davvero bisogno di un’opera che sappia rassicurare e confortare mostrando quanto c’è di bello e di buono. Il problema è che, partendo da queste premesse, è molto facile cadere nella stucchevolezza e nel sentimentalismo esasperato fine a se stesso, nella risoluzione di ogni problema e sfida a tarallucci e vino, come si suol dire: scene come quella dell’abbraccio tra Kevin e il sordo all’aeroporto, se abusate, potrebbero rendere K(P)SW una serie sdolcinata e melensa, indigesta a quella grossa fetta di pubblico resa meno naif e più cinica da un quindicennio di golden age televisiva.
Il modo migliore per evitare il succitato rischio è riuscire a trovare il giusto equilibrio tra la componente drammatico-sentimentale e quella comica, valorizzando entrambe le caratteristiche della dramedy. Sulla base di quanto visto nel pilot, si può affermare che c’è ancora da lavorare su entrambi i versanti, a cominciare da quello umoristico: la comicità, almeno in questo primo episodio, è troppo spesso poco incisiva, affidata ad una battuta o ad una gag poco ispirata o semplicemente fiacca, che suscita tutt’al più un sorriso ma mai la risata vera e propria. Altra grossa pecca della serie è la caratterizzazione del personaggio di Kevin, a cui viene dato un background tale da creare un forte contrasto con la sua attuale missione salvifica: nel corso dell’episodio si scopre che è una persona che non crede in Dio, è un bugiardo, una volta ha rubato dei soldi per comprare marijuana, ha vilmente abbandonato la sorella nel momento in cui aveva più bisogno di lui (ossia quando è rimasta vedova) e, dulcis in fundo, ha tentato il suicidio. Non è un’idea proprio originale, certo, ma funzionerebbe se non fosse che questa caratterizzazione da bad boy di Kevin è tutta affidata a dialoghi e allusioni a eventi del passato, mentre sullo schermo non assume nessun comportamento che possa connotarlo come una cattiva persona in cerca di redenzione. Chi funziona davvero, invece, è l’attore che interpreta Kevin, ossia Jason Ritter, già visto in Parenthood e Another Period: è semplicemente perfetto in un ruolo che richiede versatilità e capacità di interpretare allo stesso tempo parti comiche e parti drammatiche e la chimica che riesce a creare con gli altri attori è lodevole.
A giudicare da quanto visto nel pilot, K(P)SW ha anche un’ulteriore potenzialità da sfruttare, una sottotrama thriller/sci-fi legata all’interesse del governo per le misteriose meteore cadute sulla Terra, contenenti ognuna un angelo guerriero di Dio inviato a fare da guida ai trentasei giusti. Potrebbe essere un altro ottimo mezzo per bilanciare e limitare la stucchevolezza della componente più smaccatamente sentimentale.
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Pilot 1×01 | 4.17 milioni – 1.0 rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.