“I was wrong, you’re a piece of shit.”
Le parole di Luke Cage, che trasudano di spregevole ironia insita nel contrasto col titolo dell’episodio, riassumono alla perfezione questa tappa fondamentale dello sviluppo del personaggio e della personale analisi morale di Jessica Jones. Nella recensione del terzo episodio della stagione, d’altronde, l’avevamo detto, con “AKA It’s Called Whisky” iniziava il percorso di “decadenza” di Jessica Jones, che qui trova il suo drammatico climax con la dichiarazione carica d’odio e disprezzo che Luke Cage le rivolge dopo la sua sofferta (e attesa) confessione, chiudendo così questa sorta di “mid-season finale” con una protagonista, ora, in definitiva crisi e apparentemente senza possibilità di redenzione.
“You’re A Winner!” si prende una pausa dalla storyline principale della “caccia a Kilgrave”, per quanto solo di fatto e più che altro nella trama cosiddetta “verticale”. Come abbiamo ormai imparato a capire, il pregio maggiore della formula dell’ormai famoso binge watching, dopotutto, è che non esistono “filler”, ma tutto diventa parte integrante della narrazione intera e quindi ad essa funzionale, episodio dopo episodio, nei minimi dettagli. Attimi di “respiro” dall’Uomo Porpora, comunque sempre presente in ogni parola o gesto dei protagonisti, che permettono di approfondire davvero la psicologia della “nostra” Jessica; non facendolo solo di facciata quindi, elevando la serie, come abbiamo già constatato con Marvel’s Daredevil (forse sta qui l’unica vera somiglianza tra i due show), all’interno del grande marasma che oggi è il panorama supereroistico live-action, improntato in generale più sull’azione, sulla strizzata d’occhio continua ai fan, insomma su un più spensierato, puro e fruttuoso divertissement (dai vari Arrow, The Flash & co. targati CW, alla stessa Marvel cinematografica).
Il personaggio di Jessica Jones viene così sviscerato in tutte le sue sfaccettature, toccando vette di “realismo” inimmaginabili (specie pensando alla sua origine fumettistica); vedi il suo non voler ammettere a Luke Cage, fino alla fine, la verità su Reva, rappresentando in pieno la codardia cronica dell’essere umano. Esattamente come il rifiuto alla domanda di Luke “If i never found about Charles, would you have ever told me the truth?” dimostra tutto il suo anti-eroismo (che prescinde dalla sola dipendenza dall’alcol), agli opposti, quindi, del fare sempre “la cosa giusta” tipica dei “colleghi” più celebrati. Non serve poi andar tanto lontano, d’altronde, se la si confronta anche solo con il Luke Cage che ci viene qui presentato: semplicemente perfetto, dalla condotta morale magari eccessivamente lussuriosa, ma comunque con limiti auto-prefissati e socialmente lodevoli, ancora innamorato della moglie scomparsa (e che magari, a tal proposito, non regala molti slanci d’interesse in vista della sua futura serie personale). Uno scontro etico, quindi, che si palesa nel già citato dialogo finale, nel quale va sì fatto un plauso agli sceneggiatori per la durezza delle parole e il “realismo” paradossale della scena (basti pensare alla sua parte “fisica”), ma allo stesso tempo meritano un rimprovero per la prevedibilità della costruzione narrativa che porta Jessica a confessare, fin troppo da manuale; per quanto, per fortuna, non l’hanno protratta troppo a lungo, decidendo di chiuderla qui, dedicandoci giustamente tutto un episodio a girarci intorno (aspetto, quest’ultimo, che invece funziona nel gioco di “conoscenze dei fatti” con lo spettatore, specie nei dialoghi a letto tra Jessica e Luke).
“Realismo” sembra così essere l’insospettabile parola d’ordine, perché in fondo, come detto, Jessica Jones è innanzitutto umana prima che un’investigatrice privata dotata di superpoteri. Una natura contraddittoria che lamentiamo fin dalle prime battute di quest’avventura e che non smettiamo, in maniera altrettanto discordante, di ammirare, in questo suo percorso introspettivo che il web generalista definirebbe “dark” (a cui noi preferiamo il termine “noir”, ma vabbè, ci siamo capiti).
Una lotta interna distruttiva ottimamente resa dalla memorabile (non dubitiamo che se ne parlerà a lungo) recitazione dell'”adorabile” Krysten Ritter, che col ruolo che interpreta condivide un certo dualismo che ha caratterizzato la propria carriera fin qui: a chi di voi, nella “truffa” al telefono, non è venuta in mente la superficiale Chloe di Don’t Trust The B**** in Apartment 23 o, ancor meglio, la serena Gia di Veronica Mars? D’altro canto, la dura Jessica non possiede quel fascino tormentato e glaciale, ma internamente fragile, che ha sconvolto il cuore di tutti noi Jesse Pinkman in Breaking Bad?
Spietata e scorretta è anche l’altra sottotrama che fa da sfondo ai dolori dell’eroina in erba, ovvero quella di Hope e della sua scioccante gravidanza: sentire chiamare “cosa” un feto (“I want to live. I want to have children. But I won’t give life to this thing“), per quanto prodotto di uno stupro, non è cosa da tutti i giorni nella puritana e perbenista società americana, specialmente in una serie supereroistica, almeno sulla carta. Una storyline che non solo spiega il motivo del pestaggio di Hope, dai risvolti ancor più potenti, ma si offre anche come spazio per congetture neanche di poco conto (insomma, “filler”, quando mai?), e parliamo ovviamente dell’inquietante interesse di Trinity Hogarth verso il figlio “mai nato” di Kilgrave.
Zebediah Kilgrave, quindi, che continua ad essere onnipresente, anche se si vede “fisicamente” poco. Uno scarso minutaggio che comunque non esime né TENnant (i whoviani capiranno l’omaggio ortografico) dallo spaccare nuovamente lo schermo, né vieta a noi spettatori di proseguire con la graduale e perciò raffinata conoscenza del villain (e, se non avete ancora visto gli episodi successivi, vi assicuriamo che non farà che crescere, già dal prossimo). Un Tennant che riesce a saltare brillantemente dal registro ironico (la partita di poker), a quello più minaccioso, non smettendo mai di infondere nel fruitore un’equivalente dose di “ansia”. Nell’economia della storia, il modo in cui mette in atto l’acquisizione della casa, col senno di poi, può già farci intuire la vecchia “proprietà” dell’immobile, in uno sfoggio d’incontrovertibile maestria di scrittura e regia degli autori: Kilgrave evita di comprare la casa usando i suoi poteri (certo, per quanto il “milioncino” lo conquisti grazie ad essi), perché si tratta della casa di Jessica, ovvero dell’oggetto della sua perversa e radicata ossessione, che non può quindi “sporcare” coi suoi stratagemmi (ricordiamo che il motivo primo di ciò, è proprio che Jessica è stata l’unica a sfuggirgli), facendo di lui l’unico vero “winner” della puntata, al tavolo come nella vita, almeno dal suo punto di vista.
- Il nome dell’investigatrice consigliata da Jessica a Luke è Angela Del Toro. Comparsa per la prima volta su Daredevil #58 del 2003, Angela è la nipote di Hector Ayala, un supereroe dalla sfortunata carriera di nome Tigre Bianca. La fonte dei poteri di chi indossa i panni della Tigre Bianca è l’Amuleto di Giada, oggetto che dona a chi lo indossa capacità atletiche straordinarie, tanto che la Tigre Bianca diviene un’esperta di arti marziali agile, veloce e resistente in grado di poter lottare alla pari con maestri del calibro di Devil o Iron Fist. Angela è attualmente il quarto personaggio a prendere i panni della Tigre Bianca, eredità che conobbe quando stava investigando sulla morte di suo zio. L’indagine la portò ad incrociare la strada di Matt Murdock, l’avvocato del suo defunto parente, proprio nel periodo in cui la stampa lo accusava di essere in realtà Devil. Murdock consegnò ad Angela l’amuleto appartenuto ad Hector ed in seguito la ragazza ne ereditò il ruolo.
- Involontariamente, citando Angela Del Toro, si è citato nuovamente Iron Fist, visto che l’oggetto che dona alle persone le abilità della Tigre Bianca è un amuleto proveniente dalla città in cui Danny Rand si è addestrato: K’un-lun
- Ovviamente non conosciamo i piani futuri del serial e non sappiamo come finirà la questione del feto di Kilgrave e Hope, ma nei fumetti l’Uomo Porpora ha davvero degli eredi. La più famosa è Kara Kilgrave, altrimenti nota come Purple Woman (e in passato come Persuasion e Purple Girl), figlia di Zebediah e Melanie Kilgrave, donna che l’Uomo Porpora sposò forzandola coi suoi poteri. Incinta di Kara, Melanie si trasferì in Canada e vissero felici e contenti fino a quando la figlia non raggiunse la pubertà e manifestò i suoi poteri uguali e identici a quelli del padre. Dopo un momento di sbandamento causato dalla imprevedibilità dell’avere poteri e dalla incapacità di controllarli pienamente, venne reclutata da Alpha Flight per addestrarla ed entrare nel team, diventando una supereroina. Dopo molti anni, venne catturata dal gruppo criminale Alpha Strike, sottoposta a lavaggio del cervello e integrata tra le loro fila. Prima comparsa: Alpha Flight #41 del 1986.
- Gli altri invece sono numerosi e sconosciuti bambini che Kilgrave ebbe con altre donne, le quali rimasero incinte e furono costrette a crescere da soli i pargoli. Nonostante ciò, l’Uomo Porpora tenne d’occhio i suoi figli nell’eventualità che, un domani, potessero in qualche modo servigli: e così fu. L’obiettivo di Kilgrave era quello di creare una squadra in cui ogni membro sarebbe stato mandato in stati diversi e usato per aumentare la gittata dei suoi poteri, ma quando riuscì a mettere insieme un team di cinque elementi, questi fecero fronte comune e si ribellarono al padre, usando i loro poteri congiunti contro di lui. Dopo esseri liberati di Kilgrave, si stabilirono a San Francisco e cominciarono a vivere come volevano, adottando il nome di Purple Children. Prima comparsa: Daredevil #8 del 2014.
- Il magazzino in cui Luke e Jessica salvano Antoine è lo stesso visto in “World On Fire“.
- Ad un certo punto, Jessica cita un certo Carl Icahn. È un imprenditore e investitore statunitense, noto in tutto il mondo economico per la sua attività di Corporate Raider. Nel 1968, Icahn fondò la Icahn & Co., una società specializzata in investimenti ad alto rischio ed in consulenze per investitori. Con questa compagnia Icahn iniziò a comprare titoli azionari per poi rivenderli entro brevi periodi conseguendo grandi profitti e posizioni importanti all’interno di alcune celebri aziende: tra queste c’era la Marvel Comics. A cosa dobbiamo una sua citazione? Al fatto che, nel 1997, Icahn mosse un takeover ostile che andò quasi in porto contro la Marvel, nel tentativo di farle fare bancarotta e acquistarla. La Marvel la spuntò, ma proprio per un soffio. Oggi siamo a conoscenza di questo fatto sopratutto grazie allo scrittore Sean Howe che nel suo libro “Marvel Comics: The Untold Story” (libro che ripercorre la storia editoriale e degli autori della Marvel fin dagli anni ’30) riporta alcune conversazioni e battibecchi tra Icahn e il presidente della Marvel dell’epoca Joseph Calamari, descritte come scambi piuttosto coloriti.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.