Orange Is The New Black 6×12 – Double TroubleTEMPO DI LETTURA 7 min

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Orange Is The New Black ha una caratteristica, quella di dividersi, aprirsi a metà, mostrare il nocciolo di sé, come un pavone apre la coda per affascinare il suo pubblico con il “nocciolo di sé”, il motivo per cui esiste e per cui è tanto ammirato: la magnificenza dei suoi colori. Questa sesta stagione, come le precedenti, si mostra per quello che è: uno show stratificato, multiculturale, femminile e femminista, così è la serie, così sono le sue protagoniste, odiose a volte, egoiste spesso, ma intrise di verità ed è proprio questo a colpire. Ad esempio, mal si sopporta Chapman con le sue ingenuità, con i suoi errori, con i suoi infantili modi di vivere le situazioni (in questo episodio il voler chiedere aiuto ad una guardia, la stessa che picchia, insulta, domina le detenute) eppure si prova per lei un’empatica compassione.
Se la quinta stagione ha messo al centro la rivolta delle detenute, la sesta torna, in un certo senso, nonostante lo stravolgimento, alla vita “normale”, il quotidiano anche nella massima sicurezza. Certo, quello in cui le ragazze di Litchfield si trovano è un carcere diverso da quello precedente, molto più duro, ma, a poco a poco, si abituano alla nuova “casa”, prendono le misure e coabitano con le guardie e con le nuove e vecchie compagne.
Uno dei punti forti di questa stagione è proprio la frammentazione del cast, elemento che aiuta il racconto dei filoni narrativi, capaci di dare vita a vere e proprie contrapposizioni fra due mondi, quelli del braccio D e del braccio C, ma anche capaci di narrare ciò che avviene fuori (Caputo e le sue “indagini” per salvare Taystee, il processo), in relazione a ciò che è accaduto dentro (la morte dell’agente). L’episodio 12, intitolato “Double Trouble”, è perfetto in questo senso; l’episodio si costruisce intorno a due direttrici: da una parte la guerra, ormai vicinissima, tra Carol e Barbara, e dall’altra la vicenda giudiziaria di Taystee che tenta con ogni fibra del suo corpo di dimostrare la sua innocenza.
Questo episodio ruota quindi intorno alla guerra, l’una fisica, tra il braccio C e il D, l’altra psicologica ed emotiva, di chi non è reo, l’una che mira a veder scorrere il sangue, l’altra a trovare un capro espiatorio e non un colpevole; l’una collettiva – ma in realtà, è chiaro, il vero scontro è quello tra Carol e Barbara -, l’altra individuale – Taystee è sola al banco degli imputati, nonostante varie persone tifino per lei.
Pensando alla convivenza delle due sorelle, nemiche per la pelle, in una stessa cella, sembrava che la possibilità fosse una sola: morte certa. Invece Carol e Barbara sono due strateghe, due leader che, nonostante l’odio che provano l’una per l’altra, si conoscono, si capiscono, sono molto più simili di quanto si possa immaginare. Nello scontro tra i due bracci è chiaro quanto le sorelle siano fatte della stessa pasta, la tecnica è la stessa: muovono come pedine le adepte di una religione pagana e crudele, le usano fino allo sfinimento, mettendole le une contro le altre per poter raggiungere il loro scopo, avere vendetta. Se Carol ha dalla sua Badison e compagne, Barbara ha Daya, Morello&Co; in entrambi i casi ci sono però delle cellule che iniziano a staccarsi dal corpo centrale: da una parte Red che si è svegliata dal torpore – Carol non è dalla sua parte, non vuole finire Frieda ma vuole solo uccidere sua sorella – e dall’altra Nicky che tenta di minare il piano di Barb. Le situazioni sono dunque speculari, due gruppi, due leader, due che si autoescludono, un pretesto per ritrovarsi, una partita di pallone e al centro c’è la guerra che sta per esplodere, violenta e senza esclusione di colpi.
L’altra guerra è ancora più profonda e difficile da sopportare, soprattutto perché chi guarda sa la verità: Taystee non ha ucciso nessuno. La donna vive in un inferno (“Don’t nobody give a damn about me”), sprofonda in un baratro da cui è impossibile uscire. Piange, si sente persa e sola, basta un nome, quello di Poussey  – l’amica coraggiosa e piena di vita il cui ricordo e la cui morte vibrano ancora, colei che credeva in molte cose, che pensava in grande e leggeva, tanto e sempre – per risvegliarla dal doloroso torpore in cui si trova. Non si arrende Taystee, uno dei personaggi più riusciti della stagione, parla alla giuria con tutta se stessa, racconta la sua storia, la rivolta di cui è stata capo negoziatore, e di Poussey. Nelle sue parole c’è una critica alla situazione di cui è vittima e all’intero sistema carcerario e giudiziario, dimostra quanto conti “la fazione di appartenenza”: mentre l’assassino di Poussey non è mai stato citato a giudizio, lei, innocente, si trova lì per difendersi da qualcosa che non ha commesso e lo fa già da colpevole.
A tenere tutto insieme c’è l’odio, la paura, la violenza che fa tremare i polsi che si esplicano in vari modi: Badison, che mal sopporta Piper perché le ha mancato di rispetto sminuendola davanti alla sua “banda”, vuole farle aumentare la pena, cercando di incastrarla in ogni modo (le mette della droga nelle scarpe, compra la guardia per incolparla). Queste forze negative toccano un livello superiore nel rapporto tra guardie e detenute, sempre al limite, infatti lo strappo avvenuto nella stagione precedente è difficile da ricucire. Metafora di ciò ad esempio è lo scatto di McCullough che porta ancora i segni della rivolta, emotivi (durante l’allenamento per il gioco del pallone) e psicologici (le bruciature che si procura sul corpo).
In ogni discorso, in ogni parola, sempre e comunque quelli con i manganelli fanno sentire la loro supremazia – anche con il gioco, tipo fantacalcio, fatto sulla pelle delle detenute -: chi è dietro le sbarre non è umano, non fa parte della razza umana, Taystee deve soffrire le pene dell’inferno per ciò che forse ha compiuto.
Emerge di contro quanto, come in una Guerra, le due fazioni siano composte da persone, con gli stessi semplici e banali desideri, con le stesse fragilità e debolezze (il discorso di McCollough in bagno lo spiega perfettamente). Ci sono infatti proprio su questa scia pochi, piccoli gesti che mirano a colmare il vuoto d’odio e a salvare i personaggi dall’inferno: l’intervento di Alex, che accetta di lavorare per Carol, pur di salvare la donna che ama; i vari tentativi di Caputo di salvare Taystee dandole la forza di combattere fino all’ultimo; l’amica di Taystee che, svestendo i panni della poliziotta, va a seguire il processo per dare forza alla ragazza con cui ha tanto condiviso; il discorso di Gloria (dopo il ritrovamento delle schede del “fantadetenute”) che è un inno di umanità e un grido di dolore di chi rivendica la sua “umanità”.
Non manca l’ironia, elemento chiave della serie: è tremendamente riuscito il momento in cui Linda, per conto della PolyCon, decide di girare con le detenute un video pubblicitario in cui mostrare le grandi possibilità che il carcere dà alle donne. Risulta riuscito proprio perché ciò che il montato racconta è profondamente diverso da ciò che avviene veramente e non solo lo spettatore lo sa in virtù di tutte le stagioni della serie, ma lo dicono anche le stesse detenute che mentre recitano la loro parte la commentano. Star di questo momento è Crazy Eyes che si prende licenze poetiche infiocchettando le poche battute con altri dialoghi provenienti da serie tv molto note (Grey’s Anatomy e Scandal).

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • La guerra tra Carol e Barbara
  • Crazy Eyes che fa il provino per fare lo spot
  • Taystee in tribunale
  • Il rapporto tra guardie e detenute
  • Tutto sembra perfetto

 

Questo è un ottimo episodio che costruisce nel miglior modo possibile l’ultima puntata di una stagione che ha detto molto, esplicitamente ed implicitamente.

 

Well This Took a Dark Turn 6×11 ND milioni – ND rating
Double Trouble 6×12 ND milioni – ND rating

 

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