Orange Is The New Black 7×13 – Here’s Where We Get OffTEMPO DI LETTURA 6 min

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Those programs were never gonna work. Those women are never gonna catch a break. The system will always be what it is, and there’s not a damn thing I can do.

Com’era prevedibile, Orange Is The New Black ci lascia con un finale dal sapore dolceamaro, che sebbene risulti zavorrato da una fretta forse eccessiva nella chiusura di alcune storyline, non può che lasciarci pienamente soddisfatti. Alcuni potranno lamentare l’assenza di molte delle detenute “storiche”, tornate comunque anche soltanto per una breve comparsata nei minuti finali dell’episodio. Altri potrebbero muovere delle critiche sulla gestione non proprio ottimale dal punto di vista della gestione dei tempi narrativi in questa ultima stagione, forse fin troppo lenta in fase di avvio e motivo per il quale, giunti alla fine, si assiste ad una conclusione un po’ brusca delle diverse trame dovuta alla mancanza di tempo – e all’incredibile moltitudine di storyline che la serie ha aperto in questi sette anni di messa in onda. Ma a prescindere dalle diverse mancanze che il singolo potrà ravvisare in questo ultimo arco narrativo, per trovare la verità, come al solito, bisogna andare a cercare nel mezzo.
Difficilmente un finale riesce a mettere d’accordo tutti quanti, praticamente mai a dire il vero. Nel caso di Orange Is The New Black, e la critica in questo sembrerebbe aver espresso un parere unanime, il finale è riuscito a mettere tutti quanti d’accordo sotto un particolare punto di vista: a prescindere da questa evidente fretta in fase di chiusura, la serie è comunque riuscita a guadagnarsi un posto di tutto rispetto all’interno del panorama televisivo contemporaneo, non soltanto perché produzione originale Netflix (una delle prime insieme ad House Of Cards) e prodotto di punta della piattaforma di streaming fin dalla sua primissima messa in onda, ma anche e soprattutto per le tematiche che la serie ha affrontato negli anni, senza aver paura di mettere in scena tutte quelle problematiche che la TV americana e Hollywood hanno invece preferito tenere lontane dallo schermo per anni.
Anche per questo motivo era difficile aspettarsi un lieto fine da questo finale di serie, a testimonianza del fatto che nella vita reale non importa quanto siano buone le proprie intenzioni o quanto siamo determinati in qualcosa, talvolta la vita è semplicemente ingiusta e va presa per quella che è. E quindi non c’è da stupirsi che l’ennesimo caso di negligenza conduca alla morte dell’ennesima detenuta, come nel caso di Doggett, portata al suicidio dal totale menefreghismo di Luschek, o che l’unica persona che davvero abbia a cuore il destino delle detenute venga licenziata a causa dell’ennesima azione illegale perpetrata da uno dei suoi assistenti, assistente che tra l’altro finirà col prendere il suo posto come direttore del carcere. Talvolta capiterà che da questa pila fumante di escrementi esca qualcosa di buono, come nel caso di Luschek che, per il senso di colpa, per la prima volta decide di compiere una scelta non dettata dal puro e semplice egoismo evitando a Gloria anni di detenzione aggiuntivi. Abbiamo anche il rilascio di Blanca, la riconciliazione di Cindy con la propria famiglia, il lancio del Poussey Washington Fund – progetto che tra l’altro è stato davvero realizzato – storyline a lieto fine che ci vogliono mostrare l’importanza di conservare un briciolo di speranza, anche se attorno a noi succedono cose davvero assurde, come una madre ferita e disperata abbandonata al confine, lontana dai propri figli e impossibilitata a raggiungerli, il cui dolore è rimasto, e probabilmente rimarrà, inascoltato da coloro che in teoria avrebbero dovuto tutelare i suoi diritti umani.

I’ve always loved getting clean. But now, when I say clean, I’m not talking about baths and showers anymore. I’m talking about a clean sweep. Clean living. A clean conscience. And a clean slate.

Che Piper non fosse il personaggio più interessante all’interno della serie era cosa abbastanza risaputa. Questo perché, fin dall’inizio, lo show ha voluto mettere in chiaro una cosa: Piper non è la protagonista della serie. Il suo ruolo era quello di condurci all’interno del carcere, all’interno della vita delle detenute che di lì a poco avremmo cominciato ad amare, così da permettere a chiunque di comprendere problemi e difficoltà di una neo-detenuta che prima di allora non aveva alcuna idea di come sarebbe stato vivere, e convivere con altre persone, all’interno di un penitenziario. Attraverso gli occhi di Piper abbiamo imparato a comprendere problemi e debolezze che prima di allora non sapevamo neppure esistessero. Attraverso gli occhi di Piper abbiamo esplorato un universo, quello della detenzione al femminile, raramente visto sul piccolo o grande schermo prima del 2013, data di inizio della serie. Ma attraverso gli occhi di Piper abbiamo anche visto i problemi che seguono la detenzione, le difficoltà per quanto concerne il reinserimento all’interno della società e il perenne sguardo critico della gente nei confronti di una ex-detenuta.
Piper ci ha guidati in questo incredibile viaggio durato sette anni e la conclusione del suo viaggio, per quanto banale e a tratti scontato, riesce nell’intento di chiudere perfettamente il ciclo aperto con “I Wasn’t Ready”. La verità è che, considerato il numero elevato di personaggi sviluppati in questi anni e la difficoltà di poter accontentare chiunque su qualsiasi fronte, l’unica cosa che si può dire in merito ad un finale di serie come questo è che la conclusione perfetta, semplicemente, non esiste. Alcune trame hanno trovato una conclusione degna, altre ci hanno lasciato un po’ interdetti, altre invece sono state proprio abbandonate a loro stesse per poi sfociare nel fan service più becero (Alex e il trasferimento in Ohio che ci consente di salutare le detenute lasciate lontane dallo schermo in quest’ultima stagione). Poco importa. Nella sua imperfezione Orange Is The New Black è riuscito nell’intento di mettere sotto i riflettori delle tematiche letteralmente ignorate dal mondo del piccolo/grande schermo prima del 2013, muovendosi al contempo all’interno dello scenario geopolitico attuale allo scopo di raccontare in maniera molto intelligente alcune delle piaghe che affliggono gli Stati Uniti (e non solo) con uno stile unico e inconfondibile. Per questo e molti altri motivi, Orange Is The New Black può dirsi parte integrante della rivoluzione televisiva che stiamo vivendo negli ultimi anni, e difficilmente verrà dimenticata dai suoi fedelissimi spettatori.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • La versione remastered della sigla
  • Si conclude uno degli show più importanti per il successo di Netflix e delle sue produzioni originali
  • Finale dal sapore dolceamaro che ci mostra quanto la vita sia ingiusta
  • Gallina che caga droga
  • Alla fine un po’ fan service piace sempre
  • Il lancio del Poussey Washington Fund (anche nella realtà)
  • Alcune storyline trattate in maniera più frettolosa di altre
  • Alex e il trasferimento in Ohio usati come scusa per portare un po’ di fan service

 

Un finale perfetto nella sua imperfezione. Dopo sette anni di dolore, amori e continue ingiustizie, Orange Is The New Black ci saluta con un episodio dal retrogusto dolceamaro che non si prende troppi rischi dando allo spettatore ciò di cui aveva bisogno. C’è un po’ di rammarico per la conclusione di alcune storyline, trattate in maniera più frettolosa rispetto ad altre, ma nel complesso la serie ci saluta con un episodio ben fatto che vuole farci riflettere sull’importanza delle piccole cose e sulla necessità di combattere, sempre e comunque, per i propri diritti e per la propria libertà.

 

The Big House 7×12 ND milioni – ND rating
Here’s Where We Get Off 7×13 ND milioni – ND rating

 

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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