Si immagini un supermercato dei giorni nostri, un negozio di un grande rivenditore (come potrebbe benissimo essere Amazon), diventare tutto d’un tratto interamente automatizzato: una miriade di telecamere governate da un’IA dotata di machine learning in grado di sostituire il lavoro di decine di persone che, fino al giorno prima, era insostituibile. Ora, considerando che giusto questa settimana l’utopia/distopia è diventata realtà, si compia un ulteriore passo e si immagini che anche tutto il substrato produttivo sia stato meccanizzato e incentrato all’interno di un’unica grande fabbrica globale. Di più ancora, perfino il superstrato finale, il cliente, l’ultimo target dell’ingranaggio è reso parte integrante del processo produttivo, rimpiazzato da robot sopraffini in grado di emulare il sentimento principe della specie umana: l’amore il bisogno compulsivo di acquistare in continuazione cose. Un mondo post-apocalittico in cui l’umanità si è estinta è lo scenario in cui “Autofac” svolge la sua trama, ispirandosi all’omonima novella del 1955 di PKD. Se c’è una cosa che, giunti all’ottanta per cento di questa serie, gli appassionati fan dello scrittore avranno ormai ben capito è quanto sia inglorioso mettere a paragone l’opera letteraria di partenza con le successive trasposizioni. Pensare di poter eguagliare o addirittura superare la creatività del romanziere statunitense è un’impresa persa in partenza, dove per certi versi perfino due giganti del cinema come Ridley Scott e Spielberg (rispettivamente con Blade Runner e Minority Report) hanno fallito. Dal punto di vista seriale invece è opportuno sottolineare come “Autofac” confermi quanto questa seconda parte di stagione, iniziata con “Kill All Others“, abbia finalmente ingranato le marce giuste. L’episodio, diretto da Peter Horton – uno dei produttori dei primi anni di Grey’s Anatomy, nonché regista del film più bullizzato dalla traduzione italiana della storia – e interpretato da Juno Temple nei panni di Emily Zabriskie e da Janelle Monáe in quelli di Alice, vive in funzione del plot twist finale in grado di innalzare la sufficienza dei primi 30-40 minuti a una complessiva ottima prestazione, dove ogni dettaglio accennato in precedenza arriva alla sua giusta – e sorprendete – conclusione. Dopo un incipit tecnicamente realizzato molto bene, dove in quello che sembra essere un flashback viene mostrata la suddetta fine dell’umanità al termine di una guerra nucleare, la parte centrale soffre molto l’impostazione antologica della serie, non riuscendo a caratterizzare a pieno tutti i personaggi, dato lo scarno minutaggio a disposizione. Se infatti le due protagoniste brillano – in particolar modo la Monáe, i cui movimenti robotici colpiscono fin dal primo istante – tutti i personaggi secondari sono scarsamente sfaccettati. Inoltre la rarefazione dei dialoghi e delle informazioni rilasciate non riesce a veicolare pienamente lo stato d’animo del villaggio, le relazioni e i percorsi intrapresi per arrivare fino a quel momento preciso immortalato dalla camera. A ribaltare completamente il giudizio, come già detto, ci pensa il finale di episodio, e per più di un motivo.
Intreccio narrativo e sviluppo
Il primo aspetto che risalta è la gestione sapiente di alcuni momenti che vengono rappresentati in modo da distrarre volutamente l’attenzione dal plot twist finale. Solo alla fine, in questo senso, si scopre che la scena iniziale non era un flashback, quanto piuttosto un sogno della protagonista e che, viceversa, il taglio sulla fronte non era un incubo, ma un ricordo vero e proprio. Questo piccolo ma ben riuscito stratagemma è in grado di mescolare le carte sul percorso di Emily, garantendo in questo modo che anche lo spettatore smaliziato che era già stato in grado di intuire il primo colpo di scena (“sono tutti dei robot“) venisse sorpreso comunque con il secondo, nonché definitivo (“Emily è un robot diverso dagli altri“).
The Grey goo problem e il risveglio della coscienza
Questa sorpresa però è anche resa possibile da un progressivo cambiamento di tematica che viene sviluppato implicitamente lungo tutta la puntata. Per gran parte dell’episodio sembra che il soggetto messo sotto osservazione da “Autofac” sia infatti il cosiddetto Grey Goo, in italiano reso anche con il termine “ecofagia“, ovvero la “singolarità” apocalittica in cui dei robot auto-replicanti consumano tutta la materia del pianeta mentre si riproducono moltiplicandosi. Sembra dunque che la storia voglia raccontare di questa distopia e dei tentativi di alcuni sparuti eroi di contrastarla ponendo fine al regno della macchina. In realtà anche in questo caso il finale gioca un ruolo discriminante: l’apparente soggetto non è altro che lo scenario dove si svolge la vera storia, il risveglio della coscienza umana di Emily, che sognando pecore elettriche riscopre la sua vera storia, la sua unicità, il suo destino. Nei momenti conclusivi in cui il dolce-amaro la fa da padrone, la specie umana resterà comunque estinta per sempre, l’umanità invece rifiorisce.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Kill All Others 1×07 | ND milioni – ND rating |
Autofac 1×08 | ND milioni – ND rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.