Luci al neon, colori rosso e blu completamente predominanti, musica elettronica, regia magistrale in ogni inquadratura, sceneggiatura ridotta all’osso e trama virtualmente inesistente. In altre parole, Copenhagen Cowboy è la nuova serie di Nicolas Winding Refn. Il regista danese è uno dei volti più noti dell’intrattenimento contemporaneo e può vantare nel suo curriculum prodotti come Drive, Pusher, Bronson e Valhalla Rising. Copenhagen Cowboy è il suo secondo esperimento televisivo, facendo seguito a Too Old To Die Young.
Disponibile a partire da oggi su Netflix, la miniserie si compone di sei episodi, con una seconda stagione che rappresenta più di una remota possibilità. In termini generali, Refn non è abituato a sequel e seconde stagioni, ad eccezione della trilogia che lo ha reso celebre, ossia Pusher, Pusher II e Pusher III. Tuttavia, in una recente intervista rilasciata al sito Cineuropa.org, ha confermato di non essere affatto dispiaciuto di fronte all’idea di una seconda stagione e ha inoltre confessato di aver già scritto alcune bozze iniziali – ossia ciò che in gergo cinematografico viene definito “treatment“.
Al di là di discussioni su un eventuale rinnovo, ciò che emerge con chiarezza sin da questo episodio è che Copenhagen Cowboy è un prodotto che racchiude in pieno Refn e l’evoluzione della sua carriera. Di conseguenza, come già sta accadendo, è una serie che tenderà a dividere nettamente il pubblico e la critica. Ci saranno inevitabilmente un gruppo che apprezzerà grandemente l’opera e un altro gruppo che con altrettanta forza la criticherà.
Senza voler anticipare il voto finale, entrambe le fazioni presentano dei punti validi all’interno delle loro argomentazioni. La differenza di giudizio è dunque dovuta alla risposta a una semplice domanda: cosa ci si aspetta da un prodotto televisivo/cinematografico?
IL MONDO CRIMINALE DI COPENHAGEN
Copenhagen Cowboy vede come protagonista Miu (Angela Bundalovic: The Rain), una ragazza che sostiene di avere il dono di portare fortuna alle persone. Per questo motivo, Miu viene comprata da Rosella, sorella di un boss della mafia albanese che vuole rimanere incinta nonostante l’età avanzata. Oltre a Miu, nella casa vivono anche tutte le ragazze che vengono sfruttate – dopo essere state attratte con l’inganno in Danimarca – dal fratello di Rosella, André. Ben presto, Rosella si spazientisce per il mancato effetto benefico che Miu avrebbe dovuto portarle e, per questo motivo, la manda a vivere nel seminterrato con le altre ragazze. Miu, dunque, pianifica un piano di fuga che si rivela fatale per una delle ragazze.
Di solito, le recensioni di Recenserie non contengono un riassunto delle puntate, in quanto la scelta è quella di analizzare quanto visto, non di riassumerlo. Tuttavia, in questo caso, il riassunto è parte dell’analisi. Infatti, il paragrafo precedente descrive tutti gli avvenimenti principali del pilot, il quale ha una durata di quasi 60 minuti. Ciò, dunque, permette di comprendere la natura delle critiche rivolte da alcuni nei confronti dello show e, in generale, di Refn: una trama virtualmente inesistente.
La premessa narrativa, di per sé non particolarmente solida, sembra destinata a diluirsi in lunghi silenzi e sguardi nel vuoto, sulla falsariga di Too Old To Die Young. La sceneggiatura di Sara Isabella Jönsson (Persona Non Grata) rimane infatti un elemento marginale all’interno del pilot.
FU SOLO ESTETICA?
Il concetto espresso nel paragrafo precedente si basa su solide fondamenta: Refn non è mai stato Aaron Sorkin, ma negli ultimi anni – in particolare in seguito al successo mondiale conquistato con Drive – ha ulteriormente accentuato la sua predilezione per l’estetica sulla narrazione. O meglio, ha accentuato la sua predilezione per l’estetica come principale (se non unico) mezzo di narrazione delle sue opere, che siano televisive o cinematografiche. Nelle intenzioni del regista, dunque, l’estetica non è fine a se stessa, ma rappresenta essa stessa il cuore della storia e il mezzo attraverso il quale l’arco narrativo si completerà.
Come sempre accade, quando si guarda un prodotto di NWR – come a lui piace farsi chiamare – il comparto tecnico è assolutamente eccezionale. In Copenhagen Cowboy, ogni scatto è un dipinto, ogni dettaglio è studiato. La tuta di Miu, ad esempio, è rossa e blu, come i due colori che caratterizzano tutte le opere del danese. Grazie a regia e fotografia di alto livello, il pilot è stato in grado di mostrare la decadenza morale del clan criminale albanese a Copenhagen. La metafora – peraltro non troppo sottile – dei personaggi paragonati ai maiali è anch’essa pervasiva, pur essendo composta da una manciata di inquadrature.
La scelta di far grugnire i suoi personaggi – come il marito di Rosella o l’uomo che strangola la compagna di fuga di Miu – è un’ulteriore estremizzazione della cifra stilistica di Refn. Non solo i personaggi parlano pochissimo e le immagini prendono il sopravvento, ma ora – nelle rare occasioni in cui emettono dei suoni – questi personaggi grugniscono tanto quanto parlano. Una lotta alla complessità di trama e alle sceneggiature che oramai è senza quartiere.
COSA CI SI ATTENDE DA UN PRODOTTO AUDIOVISIVO?
Come si può evincere dal precedente paragrafo, l’analisi del pilot di Copenhagen Cowboy non può limitarsi al sottolineare una sceneggiatura scarna e dialoghi certamente non rivoluzionari. Infatti, tramite regia e fotografia, altre importanti componenti si aggiungono alla caratterizzazione dello show. Allo stesso modo, lo spettatore e il recensore non possono altresì ignorare i pericoli causati dall’estremizzazione della poetica di Refn nella fase della carriera successiva a Drive. Del resto, quando si scrivono recensioni di film e serie tv – o semplicemente se ne discute con amici e parenti, o con noi stessi – sono molteplici gli aspetti che vengono presi in considerazione: trama, regia, colonna sonora, sceneggiatura. Perché si dovrebbe fare un’eccezione per Refn? Perché, nella valutazione delle sue opere, si dovrebbe chiudere un occhio di fronte alla pressoché totale assenza di uno degli elementi cardine di ogni prodotto audiovisivo?
La fruizione di un prodotto audiovisivo – sia esso televisione o cinema – è un’esperienza per lo spettatore. Ciò è particolarmente vero nel caso di Refn. Le luci al neon, combinate con la musica elettronica e la iper-estetizzazione della violenza e del decadimento morale, comportano un senso di disagio nello spettatore. Ciò può rendere la visione difficile, perfino spiacevole, ma ha lo scopo di restituire allo spettatore un’esperienza reale, viva, concreta.
Quanto descritto in questi paragrafi è sufficiente per giudicare positivamente una serie tv, oppure l’assenza di una trama convincente è un fardello troppo pesante? Il giudizio non può che essere soggettivo. Questa recensione non può che concludersi nel modo in cui era iniziata: cosa ci si aspetta da un prodotto televisivo/cinematografico?
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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I giudizi su Refn sono spesso molto polarizzati. Questa recensione segue una strada diversa: i pregi sono innegabili, così come i difetti. Alle prossime puntate l’onere di far pendere l’ago della bilancia in una delle due direzioni.
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Romano, studente di scienze politiche, appassionato di serie tv crime. Più il mistero è intricato, meglio è. Cerco di dimenticare di essere anche tifoso della Roma.