Portare in scena Moon Knight è probabilmente una delle imprese più eroiche che Kevin Feige e i Marvel Studios abbiano mai fatto. Lo è per diverse ragioni, come si può capire benissimo anche da questa meravigliosa series premiere, ma lo è anche per l’ardire di scommettere su un character/supereroe che è sempre stato molto “borderline” anche nei fumetti.
Si scrive “borderline” per via dell’intricata origine del personaggio che, quando è stato creato nel 1975 da Doug Moench e Don Perlin, poteva essere banalmente etichettato come un mercenario che, morto in Egitto, è resuscitato diventando il braccio armato del dio Khonshu. In realtà Moon Knight, aka Marc Spector, aka Steven Grant, ha subito diverse evoluzioni nel corso degli ultimi 47 anni e quella portata qui in scena magistralmente da Jeremy Slater (con un curriculum macchiato da Fantastic Four ma benedetto da The Umbrella Academy) è ovviamente una sorta di commistione di tutto questo.
Ciò che sorprende, essendo a conoscenza di tutta la mitologia e le difficoltà insite dietro la trasposizione dal fumetto al piccolo schermo, è la scelta di avere solo 6 episodi a disposizione, probabilmente troppo pochi per poter dare un’approfondita analisi di tutte le sue sfaccettature. Ovviamente ci si augura di sbagliare.
L’IMPORTANZA DEL 3
Nonostante chi scriva sia profondamente contrario al cambiamento di titoli che stravolgono il significato e gli intenti dei prodotti originali, per una volta sembra che la traduzione italiana abbia fatto un lavoro migliore (anche se non richiesto) rispetto a quella americana. “The Goldfish Problem” è infatti stato tradotto come “Il Pesce Mono-Pinna; Una presenza ingombrante; Amnesie”. Un titolo piuttosto lungo ma che racchiude anche tre diversi sotto-titoli. Già: tre.
Non è un numero casuale perché è esattamente il numero delle personalità che sembrano sono state presentate in questo episodio, una scelta appunto non casuale, estremamente curata nel dettaglio e degna di essere notata. Tre voci che si sono fatte ampiamente spazio nella testa dello spettatore in maniera unica, creando curiosità, aspettative ma anche tanta confusione. Una confusione necessaria e voluta da Jeremy Slater per poter far apprezzare al meglio Moon Knight.
L’IMPORTANZA DELLA CONFUSIONE
Mohamed Diab è uno sconosciuto regista egiziano che è stato direttamente contattato dai Marvel Studios per lavorare sul progetto. Una scelta chiaramente dettata dalle origini di Moon Knight ma anche piuttosto sorprendente e che poteva destare più di qualche dubbio, specie se si ripensa a Eternals, tanto bello da vedere, quanto piatto e lungo da guardare. Con la visione di questo pilot, Diab prende tutti i dubbi del pubblico, li cosparge di benzina e gli dà fuoco, un fuoco purificatore che spazza via qualsiasi punto di domanda e lo fa con una regia imbarazzantemente bella e curata in ogni scorcio (ovviamente con il marchio e la supervisione di Kevin Feige e soci), tanto da poter essere considerato facilmente come uno dei migliori episodi del piccolo schermo targati Marvel/Disney+.
Slater approccia la serie dall’angolatura più intrigante ma al tempo stesso più difficile perché “The Goldfish Problem” mette lo spettatore e Steven Grant nella stessa ignara posizione che non fornisce informazioni ma crea solo domande su domande, disorientando in tutti i modi possibili e cercando di ingannare sia Steven che lo spettatore. Il primo passo per capire cosa si sta guardando e la sua qualità intrinseca è infatti venire a patti con la condizione del protagonista (un mastodontico Oscar Isaac che andrà probabilmente a vincere qualche Emmy per questa performance) che non è a conoscenza di avere non una ma ben due altre personalità oltre alla sua: Steven, Marc e Khonshu. Tutto verrà spiegato sicuramente a tempo debito, nel frattempo queste sono le informazioni chiave che servono a sopravvivere fino alla prossima puntata.
In un episodio che fa di tutto pur di rendere difficile la vita allo spettatore, chiaramente l’importanza data alla visione è diametralmente opposta, sembra infatti che la confusione e la difficoltà a capire cosa si stia guardando vada di pari passo ad una piacevolezza quasi inconsueta. I giochi di specchi, le ombre, le voci e tanti piccoli dettagli che fanno venir voglia di rivedere l’episodio per almeno altre 3-4 volte, sono un ottimo segnale del successo di Diab per uno show veramente difficile da portare in scena.
L’IMPORTANZA DELLA STAR HOLLYWOODIANA
Che i Marvel Studios cerchino di accaparrarsi sempre più nomi importanti non è una novità, e l’affiancamento di Oscar Isaac ed Ethan Hawke alla serie ha destato fin da subito molto interesse. Da un lato c’è un attore che sta (giustamente) esplodendo raggiungendo la notorietà che merita di avere e dall’altro c’è un eclettico attore di film indipendenti, con un carisma che fa provincia, che ha accettato un ruolo in una produzione mainstream: era lecito aspettarsi grandi cose e così sembra essere.
Sia Hawke che Isaac hanno un ruolo centrale in questo episodio e, per quanto sorprenda constatare come Arthur Harrow (Hawke), discepolo(?) di Ammit, abbia già un ruolo centrale, non si poteva chiedere di meno a Steven/Marc/Khonshu. Specialmente l’interpretazione di Isaac, qui messo alle strette dal dover interpretare un disordine di personalità multipla, ha un suo fascino ed è certo che verrà esplorata in tutte le sue sfaccettature nei prossimi cinque episodi. Rimane ovviamente da domandarsi come sarebbe stata questa series premiere senza un attore così bravo a recitare e, fortunatamente, si rimarrà con questo dubbio.
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Era facilissimo sbagliare tutto e invece è con sommo piacere che si constata un risultato perfetto. Non ci si poteva aspettare di più.
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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.