Che Peter Jackson sia abituato a gestire lavori mastodontici lo si poteva intuire ricordando la complicatissima gestazione della trilogia de Il Signore degli Anelli. Quando poi nel 2019 venne annunciato un documentario basato sul memorabile “rooftop concert” diretto proprio dal regista neozelandese, i fan dei Beatles di tutto il mondo esultarono nella speranza di avere un’opera audiovisiva definitiva riguardante i Fab Four. La particolarità sta nel fatto che il documentario, come per una maledizione, ha subito la stessa sorte dell’opera da cui è tratta, ovvero l’ultimo film sui Beatles, “Let It Be – Un Giorno con i Beatles“, venendo prima posticipato causa covid, poi suddiviso in tre parti divenendo una docuseries che però, dalla durata, ricorda proprio la trilogia de Il Signore degli Anelli, chiudendo così un cerchio immaginario nato nel 1968 quando la band di Liverpool contattò Stanley Kubrick per girare un film sul libro di Tolkien: segni del destino.
Il risultato tanto atteso è quindi una docuseries in tre parti, le cui durate superano quelle di un semplice film, distribuita in tutto il mondo su Disney+. Un’opera enorme e impressionante per mole di lavoro svolto, già annunciato nell’incipit di ogni puntata, lavorando su più di 50 ore di video inediti e ben 150 ore di audio inedito, montati con maestria regalando la sensazione allo spettatore di conoscere veramente John, Paul, George e Ringo, riuscendo a rappresentare i tratti caratteriali, con pregi e difetti annessi di ognuno di loro.
George Harrison: “I’ll play whatever you want to please you.”
DON’T LET ME DOWN
Nel gennaio del 1969, dopo il successo del progetto riguardante il videoclip di “Hey Jude“, i Beatles decidono che i tempi sono maturi per tornare tra il pubblico. Decidono quindi di scrivere 14 nuovi brani da esibire poi in uno spettacolo TV dal vivo, registrato così com’è per farne il nuovo LP. Lo show TV si terrà il 19 gennaio e la band ha quindi due settimane per provare le canzoni negli studi di Twickenham, venendo sempre registrata in modo da ottenere anche un documentario sulla lavorazione. Jackson quindi rappresenta con tanto di calendario cosa accade giorno dopo giorno, partendo dal primo giorno di prove. Ciò che viene fuori principalmente da questo lunghissimo documentario di circa 8 ore sono soprattutto i protagonisti. Non una panoramica bensì un dipinto molto accurato, sotto ogni sfumatura, riguardante i rapporti tra i quattro Bootles Beatles.
Vengono inoltre svelati dettagli e fatti che magari potrebbero essere scappati anche a fan accaniti, tra cui il momento clou dell’abbandono da parte di George Harrison della band, mentre Ringo Starr ne esce fuori come il più professionale, legato probabilmente alla band a causa di uno scarso impulso della sua carriera solista, a differenza degli altri tre. Paul appare frustrato perché poco seguito dai compagni, soprattutto da un Lennon molto spento e distratto. Si evince anche una certa tensione in alcuni tratti tra le due figure frontman, non solo a causa della solita Yoko Ono, la cui presenza è sì ingombrante, ma non decisiva per lo scioglimento del gruppo come narrano le leggende. Tuttavia gli scontri tra i membri della band risultano sempre pacati, diverbi tra gentlemen in cui non volano mai parole grosse, mostrando come semplicemente fossero quattro professionisti che ormai avevano espresso tutto ciò che potevano all’interno di una band.
GET BACK TO WHERE YOU ONCE BELONGED
Un processo creativo si dice creativo appunto perché non segue una logica ben definita, non segue schemi preesistenti. Il processo che porterà l’idea dello show TV al rooftop concert è il processo creativo per antonomasia. “The Beatles: Get Back” ha il pregio di seguire step-by-step ogni fase di questo processo. In mezzo fioccheranno decine di idee, strampalate o meno, tra cui quella di svolgere lo spettacolo in una rovina romana in Arabia, oppure di esibirsi a casa di George Harrison, il più restio per quanto riguarda il live. Addirittura il giorno stesso dell’esibizione sul tetto degli uffici della Apple Corps la band si diceva “non sicura di voler suonare in pubblico”. Il documentario di Jackson quindi provoca uno strano effetto, visto che lo spettatore già sa come andrà a finire la storia, ma vede distruggersi ogni volta il lieto fine che si sta costruendo, vuoi per un motivo o per un altro.
Il processo creativo riguarda anche le canzoni stesse. Infatti è peculiare il fatto che nel corso dell’intero mese di gennaio ’69 vengono sostanzialmente composte tutte le canzoni dei loro prossimi due LP, ovvero “Abbey Road” e “Let It Be“. Quindi, oltre a ciò che lo spettatore può aspettarsi di vedere, ci sono anche alcune chicche come il poter assistere alla nascita di brani storici ancora in fase embrionale, come “Something” o “Let It Be“. Un mese pregno di creatività in cui evidentemente i Beatles si sentivano particolarmente ispirati.
I’VE GOT A FEELING
Dopo l’abbandono di George Harrison la band lascia gli scomodi studi di Twickenham per trasferirsi negli uffici della loro azienda, la Apple Corps (non quella dell’iPhone), al numero 3 di Savile Row, dove fu allestito ad hoc uno studio di registrazione in fretta e furia. Si abbandona il piano dello show televisivo e si decide di utilizzare le canzoni provate per registrare comunque un album in presa diretta (senza sovraincisioni e aggiunte), mantenendo la troupe che li avrebbe filmati per realizzare il terzo film dei Beatles. Qui la band inizia ad essere più produttiva, ampliando il range di canzoni a disposizione per permettere a Glyn Johns, famoso produttore che ha lavorato anche con i Led Zeppelin, Bob Dylan e Rolling Stones, di mixare il nuovo disco dei Beatles.
L’inerzia produttiva della band cambia anche in corrispondenza dell’arrivo di colui che spesso è stato addirittura definito il quinto Beatle: Billy Preston. Il pianista di Little Richard era passato per caso a salutare gli amici di Liverpool. Si rivela però determinante per gli arrangiamenti dei nuovi brani finora monchi di un piano elettrico. Si arriva quindi al famoso concerto sul tetto, mostrato per la prima volta per esteso, con tanto di ampie riprese sia sulla strada che all’interno della hall dell’edificio. Un’opportunità per vedere l’esilarante e grottesco intervento della polizia, volti a fermare il concerto ma comunque in confusione per l’evento assurdo che si stava svolgendo.
John Lennon: “I would like to say thank you on behalf of the group and ourselves. And I hope we’ve passed the audition.”
… THEM ALL!
Parte 1: Giorni 1-7 | |
Parte 2: Giorni 8-16 | |
Parte 3: Giorni 17-22 |
Peter Jackson ha compiuto insieme al suo team una vera e propria impresa, recuperando un’enorme quantità di materiale e mettendola insieme facendo sicuramente scelte di montaggio non facili. Il materiale di partenza, girato da Michael Lindsay-Hogg (figlio illegittimo di Orson Welles), era già molto significativo. Tuttavia sono stati effettuati anche dei processi singolari per isolare le voci dei Beatles, che talvolta parlavano mentre suonavano per mascherare le discussioni davanti alle telecamere. Sono otto ore di documentario che potranno risultare pesanti per uno spettatore comune, oppure poche per un fan che ne vorrebbe ancora. È solo una questione di punti di vista.
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Giovane musicista e cineasta famoso tra le pareti di casa sua. Si sta addestrando nell'uso della Forza, ma in realtà gli basterebbe spostare un vaso come Massimo Troisi. Se volete farlo contento regalategli dei Lego, se volete farlo arrabbiare toccategli Sergio Leone. Inizia a recensire per dare sfogo alla sua valvola di critico, anche se nessuno glielo aveva chiesto.