“Nella mia prossima vita voglio essere uno squalo.”
Fatta eccezione per la recensione dell’episodio numero quattro, ma con un minimo di margine anche in quel caso, si è sempre optato casualmente per una foto che ricapitolasse la puntata attraverso uno scontro verbale tra protagonisti. Ovviamente non si tratta di un tacito accordo tra recensori fatto anzitempo, ma ad ogni modo, osservando la cosa a conti fatti, con la prima stagione ormai nel pieno della sua fase conclusiva, risulta quantomeno interessante.
La cifra stilistica alla base del the good universe è nel dialogo, nelle parole sferzanti che un personaggio rivolge a un altro, o a volte nella totale mancanza di questo, nei silenzi imbarazzati che però continuano a comunicare, più di ogni altro gesto o simbolo. La cifra stilistica è in questa saturazione di violenza verbale, ben più difficile da trasporre rispetto alla “controparte fisica”, ma che alla lunga grazie a una scrittura sempre affilata non stanca, anzi permette allo stesso tempo di mantenere alta la tensione e di approfondire ulteriormente la psiche dei protagonisti. Da questo punto di vista, la stagione si sta costruendo attorno alla figura non di Diane, non di Lucca, bensì di Maia. La ragazzina addormentatasi ricca figlia di genitori ricchi e (forse) truffatori, si risveglia improvvisamente squalo in un mondo pieno di squali. La sua probabilmente era la parte più difficile da scrivere, per via dell’essere divisa a metà tra il nuovo studio e la famiglia. Come giustificare il tradimento nei confronti del padre? Cosa lega Maia allo studio afroamericano a tal punto da compiere questo passo? La costruzione dell’episodio passa appunto attraverso i due memorabili scontri di cui parlavamo prima. I Rindell padre e figlia si incontrano dentro una fotografia degna di un grande film. Con un grande gioco di contrasti di colore, apparentemente risultano simili (entrambi vestono di nero, entrambi spengono il loro registratore), in realtà la differenza è abissale: Maia, nel stoppare il proprio telefono, vorrebbe lasciare fuori da quella conversazione tutto ciò che è altro dal rapporto con il genitore, Henry semplicemente non può farlo, non con la condanna che gli pende sulla testa. La genialità dei King è racchiusa in quello che non è un esercizio di moralità, non si può affermare che le ragioni dell’uno siano migliori di quelle dell’altra. Piuttosto, l’acquistata consapevolezza che il padre non può e non riesce a parlare con la figlia senza un doppio fine, la consapevolezza che in tutto questo potrebbe andarci di mezzo Diane, madrina della ragazza, è la molla decisiva che fa scattare la storyline del processo e la congiuntura finale tra tutte le varie storyline che si erano finora andate creando. Tutto questo, direttamente, a scapito del big bad villain di stagione Mike Kresteva.
“Penso che a Mike Kresteva, in qualche modo, non interessi se le cose sono vere o false. Ha passato una vita intera a raccontare balle. Si è affermato, raccontando balle. Ha iniziato a lavorare in procura raccontando balle. E’ difficile, a questo punto, dire a questa persona che raccontare balle non aiuta, perché… guardate i risultati, no?”
In realtà – d’altronde è il primo d’aprile – questa non è una citazione propriamente esatta. La citazione infatti è di tale Fareed Zakaria ed è andata in onda nell’ultimo appuntamento con il talk show domenicale di HBO, Last Week Tonight With John Oliver. L’originale diversamente recitava: “Penso che a Donald Trump, in qualche modo, non interessi se le cose sono vere o false. Ha passato una vita intera a raccontare balle. Si è affermato, raccontando balle. E’ diventato Presidente raccontando balle. E’ difficile, a questo punto, dire a questa persona che raccontare balle non aiuta, perchè… guardate i risultati, no?”
Al di là di queste parole goliardiche, la sovrapposizione tra i due (uno personaggio comico, l’altro personaggio tragico, a voi la distinzione) è ormai palese. Si potrebbe quasi pensare che Kresteva sia un personaggio scritto ad hoc dopo le elezioni di novembre e non, come effettivamente è, uno nato nell’ormai lontano 2014, quando ancora le bufale non erano decisive per una campagna presidenziale. In questa perfetta sovrapposizione tra i due e nello sbeffeggio narrativo degli ultimi due episodi di cui Kresteva è vittima sta quindi la rivincita culturale dei King e di tutto il mondo dello spettacolo americano, mai così politicamente schierato come oggi.
“Well, it is about race.”
Potrebbero essere 50 minuti perfetti, quelli di “Not So Grand Jury”, se potessimo usare le stesse entusiastiche parole adoperate finora anche per parlare di quanto accade all’interno delle aule di tribunale. Purtroppo, in questo caso, tutti i sette anni di The Good Wife si sentono. Sia per quanto riguarda il Grand Jury – dove tra l’altro rincontriamo Aaron Tveit che aveva già interpretato il medesimo assistente procuratore nel lontanissimo settimo episodio della terza stagione di TGW “Executive Order 13224”, ma che ricordiamo soprattutto per l’ottimo lavoro come Gareth Ritter in BrainDead – sia per quanto riguarda gli scambi tra Lucca e Colin. Nonostante siano comunque piacevoli da guardare, il primo richiama troppo, soprattutto per come viene risolto, il Grand Jury dedicato a Will Gardner nella terza stagione della serie madre, mentre il secondo suona terribilmente come una riproposizione peggio riuscita degli impacci sessuali tra Elsbeth Tascioni e il Josh Perotti dell’immenso Kyle MacLachlan, avvenuti invece nella sesta stagione.
Per certi versi, dettagli. Però non fosse per questo fastidioso senso di déjà vu, saremmo pronti a benedire questo “Not So Grand Jury” con ogni gioia.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.