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In pochi, vedendo il super cliffhanger con cui “Angel Of Death” si chiudeva, avranno resistito al peccaminoso bottone rosso “Prossimo Episodio” che puntualmente campeggia nella parte bassa dello schermo al termine di ogni episodio e che, puntualmente, ci porta a odiare noi stessi per l’ennesima nottata passata a guardare serie tv invece che dormire come farebbe un qualsiasi essere umano coscienzioso. Ovviamente, il recensore che si cela dietro questo scritto non è da meno, quindi non preoccupatevi, maratoneti seriali e procrastinatori professionisti, siete approdati in un porto sicuro.
“Treasure Island” si configura come il più classico degli episodi #2: fortemente transitorio, pieno di flashback utili allo spettatore per ritrovare il bandolo della matassa e pieno di nuovi altri spunti che arricchiscono la già complessa trama di fondo del telefilm. Le due trame principali, dopo un’iniziale progressione in parallelo, sembrano cominciare a convergere verso un’unica direzione, com’era facilmente pronosticabile, ma lo fanno nello stile definibile oramai caratteristico del telefilm: confondendo lo spettatore. Questo perché The OA non è la classica esperienza televisiva – a conti fatti è esattamente l’opposto – volta a gratificare chi sta guardando con una storia in grado di calamitare l’attenzione attraverso volti noti o comunque particolarmente televisivi, oppure uno schema narrativo lineare e coerente in grado di conquistare qualsivoglia tipologia di spettatore. Volendo tirare in ballo un altro prodotto Netflix, ci troviamo di fronte ad una sorta di anti-Stranger Things, con cui The OA condivide giusto la scelta di alcune melodie sullo sfondo, stilisticamente molto simili, ma che per il resto differisce in tutte le sue componenti, dalle intenzioni alla messa in scena. L’impressione è che gli autori non stiano nemmeno provando a creare una storia in grado di attirare a sé e conquistare chiunque decida di imbarcarsi in questa quantomeno complessa esperienza televisiva, bensì pare che il vero intento sia quello di creare una sorta di esperienza individuale unica per ciascun spettatore, evitando come la peste ogni tipo di schema narrativo coerente e regalandoci, invece, un racconto dalle infinite interpretazioni, all’interno del quale non è importante ciò che tutti quanti vedono ma ciò che il singolo riesce a leggere tra le righe.
Ed è proprio per questo, e molti altri motivi, che The OA rappresenta l’anti-Stranger Things. Fin dal suo esordio, tra titoli di apertura che partono dopo mezz’ora e puntate dal minutaggio completamente casuale, la serie ha mostrato la sua natura fortemente non commerciale. L’obiettivo che lo show si pone forse è proprio quello di non avere un obiettivo, quantomeno non un obiettivo chiaro e univoco, non vuole piacere a tutti i costi, non rende facile la vita allo spettatore, ma anzi sembra voler complicare ulteriormente ogni cosa man mano che la narrazione progredisce. Per ogni passo avanti compiuto dallo spettatore in termini di decifrazione della trama, almeno un paio di nuovi interrogativi sorgono nella sua mente. Attraverso un paio di flashback si comincia a capire come i nostri protagonisti siano finiti in questa dimensione alternativa, dall’altra parte l’indagine del detective Karim progredisce, convergendo in direzione della casa di Nob Hill, passando per sogni condivisi e giochi ideati allo scopo di reclutare menti brillanti in grado di decifrare codici impossibili.
Allo stesso tempo, però, altre mille domande sorgono: su quale piano spazio-temporale si trovano le due storyline principali? Perché dopo il salto delle coscienze i cinque “viaggiatori” si trovano insieme nella stessa stanza anche nell’altra dimensione? Cosa succede alla coscienza delle persone “originali” dell’altra dimensione? Perché Homer non si ricorda nulla? Cosa ne è stato delle versioni dei protagonisti nella prima dimensione? Tutti morti? Dobbiamo dimenticarci completamente di quella loro “versione”? Chi è il bambino nel finale di puntata? Perché c’è letteralmente un seme dentro ogni cervello? Cosa c’è dietro la porta nel laboratorio di Hap? Tutte domande a cui probabilmente non verrà data risposta, o magari sì, nessuno può dirlo al momento. Quello che però è certo è il magistrale lavoro compiuto da Brit Marling – volto associabile ad altri prodotti del medesimo filone paranormale/fantascientifico dalle atmosfere fredde e distaccate – impeccabile nella sua performance e veramente brava a restituire allo spettatore il disagio di una persona “bloccata” in un corpo e in un mondo che non le appartengono e per giunta considerata pazza e quindi senza alcuna chance di essere presa seriamente dalle persone che la circondano.
Insomma, se l’intenzione degli autori era quella di mettere lo spettatore a disagio, facendolo dubitare delle sue capacità di comprensione e ponendolo in una situazione di costante smarrimento, la missione può dirsi compiuta, se invece la vostra intenzione era quella di guardare una serie tv per rilassarvi e liberare la mente avete decisamente fatto una cazzata.
“Treasure Island” si configura come il più classico degli episodi #2: fortemente transitorio, pieno di flashback utili allo spettatore per ritrovare il bandolo della matassa e pieno di nuovi altri spunti che arricchiscono la già complessa trama di fondo del telefilm. Le due trame principali, dopo un’iniziale progressione in parallelo, sembrano cominciare a convergere verso un’unica direzione, com’era facilmente pronosticabile, ma lo fanno nello stile definibile oramai caratteristico del telefilm: confondendo lo spettatore. Questo perché The OA non è la classica esperienza televisiva – a conti fatti è esattamente l’opposto – volta a gratificare chi sta guardando con una storia in grado di calamitare l’attenzione attraverso volti noti o comunque particolarmente televisivi, oppure uno schema narrativo lineare e coerente in grado di conquistare qualsivoglia tipologia di spettatore. Volendo tirare in ballo un altro prodotto Netflix, ci troviamo di fronte ad una sorta di anti-Stranger Things, con cui The OA condivide giusto la scelta di alcune melodie sullo sfondo, stilisticamente molto simili, ma che per il resto differisce in tutte le sue componenti, dalle intenzioni alla messa in scena. L’impressione è che gli autori non stiano nemmeno provando a creare una storia in grado di attirare a sé e conquistare chiunque decida di imbarcarsi in questa quantomeno complessa esperienza televisiva, bensì pare che il vero intento sia quello di creare una sorta di esperienza individuale unica per ciascun spettatore, evitando come la peste ogni tipo di schema narrativo coerente e regalandoci, invece, un racconto dalle infinite interpretazioni, all’interno del quale non è importante ciò che tutti quanti vedono ma ciò che il singolo riesce a leggere tra le righe.
Ed è proprio per questo, e molti altri motivi, che The OA rappresenta l’anti-Stranger Things. Fin dal suo esordio, tra titoli di apertura che partono dopo mezz’ora e puntate dal minutaggio completamente casuale, la serie ha mostrato la sua natura fortemente non commerciale. L’obiettivo che lo show si pone forse è proprio quello di non avere un obiettivo, quantomeno non un obiettivo chiaro e univoco, non vuole piacere a tutti i costi, non rende facile la vita allo spettatore, ma anzi sembra voler complicare ulteriormente ogni cosa man mano che la narrazione progredisce. Per ogni passo avanti compiuto dallo spettatore in termini di decifrazione della trama, almeno un paio di nuovi interrogativi sorgono nella sua mente. Attraverso un paio di flashback si comincia a capire come i nostri protagonisti siano finiti in questa dimensione alternativa, dall’altra parte l’indagine del detective Karim progredisce, convergendo in direzione della casa di Nob Hill, passando per sogni condivisi e giochi ideati allo scopo di reclutare menti brillanti in grado di decifrare codici impossibili.
Allo stesso tempo, però, altre mille domande sorgono: su quale piano spazio-temporale si trovano le due storyline principali? Perché dopo il salto delle coscienze i cinque “viaggiatori” si trovano insieme nella stessa stanza anche nell’altra dimensione? Cosa succede alla coscienza delle persone “originali” dell’altra dimensione? Perché Homer non si ricorda nulla? Cosa ne è stato delle versioni dei protagonisti nella prima dimensione? Tutti morti? Dobbiamo dimenticarci completamente di quella loro “versione”? Chi è il bambino nel finale di puntata? Perché c’è letteralmente un seme dentro ogni cervello? Cosa c’è dietro la porta nel laboratorio di Hap? Tutte domande a cui probabilmente non verrà data risposta, o magari sì, nessuno può dirlo al momento. Quello che però è certo è il magistrale lavoro compiuto da Brit Marling – volto associabile ad altri prodotti del medesimo filone paranormale/fantascientifico dalle atmosfere fredde e distaccate – impeccabile nella sua performance e veramente brava a restituire allo spettatore il disagio di una persona “bloccata” in un corpo e in un mondo che non le appartengono e per giunta considerata pazza e quindi senza alcuna chance di essere presa seriamente dalle persone che la circondano.
Insomma, se l’intenzione degli autori era quella di mettere lo spettatore a disagio, facendolo dubitare delle sue capacità di comprensione e ponendolo in una situazione di costante smarrimento, la missione può dirsi compiuta, se invece la vostra intenzione era quella di guardare una serie tv per rilassarvi e liberare la mente avete decisamente fatto una cazzata.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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In questa recensione abbiamo detto molte cose eppure, di fatto, non abbiamo detto nulla. Arrabbiati? Confusi? Smarriti? Bene, ora sapete come ci sentiamo al termine di ogni puntata di The OA.
Angel Of Death 2×01 | ND milioni – ND rating |
Treasure Island 2×02 | ND milioni – ND rating |
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.