Il destino, si sa, ha un perverso senso dell’umorismo. Il 14 marzo 1613 il primo sovrano della dinastia Romanov, Michele, fu proclamato zar di tutte le Russie nel monastero Ipat’ev di Kostroma, a nord-est di Mosca. Tre secoli dopo, il 30 aprile 1918, l’ultimo zar Nicola II, la moglie Aleksandra, le quattro figlie e il principino Aleksej furono trasferiti dai bolscevichi a Ekaterinburg nella casa di un commerciante locale che si chiamava proprio Nikolaj Ipat’ev e lì, dopo settantotto giorni di prigionia, barbaramente giustiziati da un commando della Čeka, il KGB dell’epoca. Il nome Ipat’ev si legò così tanto all’ascesa quanto alla caduta di una delle più grandi dinastie europee, ma la villa di Ekaterinburg passò alla storia con la sua denominazione in codice: la casa dello scopo speciale. The house of special purpose.
Col terzo episodio (o dovremmo dire film?) di The Romanoffs, Matthew Weiner spiazza e sorprende, confonde e inquieta. Se in The Violet Hour si poteva cogliere una certa influenza di Woody Allen, qui i numi tutelari e ispiratori del nostro sono Rod Serling, Stanley Kubrick (esplicitamente menzionato a un certo punto), Dario Argento e David Lynch; e a proposito di quest’ultimo, vale la pena far notare che la co-sceneggiatrice della puntata, Mary Sweeney, è stata collaboratrice e per breve tempo moglie del regista di Missoula, quindi deve aver avuto un peso non ininfluente nel dare alla puntata un’impronta lynchiana.
“House Of Special Purpose” è, prima di tutto, una metanarrazione, una televisione nella televisione. Il tema della rievocazione storica già presente nel precedente The Royal We sotto forma della pacchiana messa in scena durante la crociera di Shelly, qui si incarna nelle riprese di una miniserie sugli ultimi eventi dei Romanov, una produzione sontuosa, imponente, dall’alto budget, girata in una sperduta località mitteleuropea sotto la direzione di una regista volitiva ed esigente, Jacqueline Girard, interpretata da una strepitosa Isabelle Huppert. La Girard si proclama discendente dei Romanov, anche se il dubbio che non sia così si farà sempre più largo; d’altronde, come dice a un certo punto la moglie russa del produttore della serie a proposito del legame di sangue con gli zar “everyone says that, but no one really is”. Dall’altro lato c’è la nostra protagonista, Olivia Rogers, un’altrettanto eccellente e sempre splendida Christina Hendricks che qui veste i panni di un’attrice di fama scelta per il ruolo della zarina Aleksandra, che sta cercando di elaborare il lutto della morte della madre.
L’espediente metanarrativo permette subito a Weiner di catapultare lo spettatore dietro le quinte di quei prodotti seriali e cinematografici che tanto avidamente divora ogni giorno, portando in scena le tensioni, le difficoltà, i conflitti di quel mondo. A cominciare, ovviamente, dallo scontro tra regista e attore che costituisce l’ossatura della narrazione: Jacqueline è esigente e capricciosa, pretende il massimo dagli attori e cambia le sceneggiature all’ultimo momento; d’altro canto Olivia è una primadonna che non vuole farsi mettere i piedi in testa, civettuola e vanitosa come solo le grandi star sanno essere (emblematica la frase in cui afferma “I really responde to praise” dopo aver girato la sua prima scena). L’ossessione di Jacqueline perché il suo progetto dia lustro e renda giustizia alla sua famiglia non può essere condiviso da Olivia proprio perché per quest’ultima si tratta di un lavoro come un altro, nulla di più. Lo scontro ovviamente non preclude momenti di distensione e di confessione a cuore aperto, nei quali le due si rivelano molto più simili di quanto pensino, accomunate proprio dal fatto di essere donne e di essersi dovute far largo in un mondo pieno di ombre e a suo modo ancora tanto sessista quale è Hollywood.
Tuttavia, Weiner va ben presto oltre e dalla metanarrazione, che tutto sommato non è nulla di nuovo sotto il sole, e passa a mettere sempre più in dubbio la natura del reale, il confine tra la realtà e la finzione, tra la vita e la recitazione, seguendo uno schema che ricorda molto i singoli episodi di The Twilight Zone. Il personaggio di Samuel Ryan appare semplicemente inquietante nella sua quasi totale identificazione con Rasputin: si rivolge a Olivia anche fuori dal set come se stesse parlando alla zarina, descrive la scena della morte del proprio personaggio con un tale trasporto da far pensare che sia parlando della propria stessa dipartita, arriva persino a tentare una vera violenza sessuale in una scena che dovrebbe essere solo recitata. La sua scomparsa nel finale, nonostante venga detto che è stato accompagnato all’aeroporto e sia tornato a casa, ha il lugubre sapore di una vera e propria eliminazione fisica nel cuore della notte, come quella del monaco maledetto che interpreta. La stessa Olivia subisce una sorte simile nello sconcertante finale, che la vede morire in scena proprio durante le riprese dell’esecuzione della famiglia Romanov nella casa di Ekaterinburg.
Ma questa è ancora la punta dell’iceberg e la messa in crisi della realtà ha radici ancora più profonde. “The oldest and strongest emotion of mankind is fear, and the oldest and strongest kind of fear is fear of the unknown” affermava Lovecraft. Ciò che non conosciamo e che non possiamo ricondurre a una spiegazione razionale non solo ci spaventa a morte, ma erode anche le nostre certezze sulla realtà. Un’aura sinistra e opprimente grava sull’hotel in cui alloggia Olivia fin dall’inizio, ma è solo gradualmente, notte dopo notte, che i fatti inspiegabili si moltiplicano: pagine che si consegnano da sole, spiriti che parlano tramite il vento, bambine che compaiono dal nulla nel cuore della notte e scompaiono nell’armadio, parti dell’albergo che prima non ci sono e poi sì. Sono palpabili le influenze di Shining, di Suspiria (di cui compare persino una locandina nell’ufficio dell’agente di Olivia) e di Twin Peaks. Il culmine dell’orrore è rappresentato però dalla possessione che Jacqueline subisce da parte dello spirito dell’imperatrice madre Maria durante una cena col produttore della miniserie e la moglie, una possessione che potrebbe essere tutta una recita abilmente orchestrata dalla regista ma anche un vero caso sovrannaturale. La bravura di Weiner sta proprio nel rendere ambigui questi elementi innaturali, suggerendo di volta in volta una spiegazione razionale che potrebbe soddisfare così come potrebbe essere ritenuta insufficiente e che comunque non intacca minimamente il loro impatto e il potere perturbante tanto sui personaggi quanto sugli spettatori. Olivia (e con lei chi c’è dall’altra parte dello schermo) finisce per approcciarsi a ogni scena, a ogni evento domandandosi se sia reale o meno, se sia una colossale presa in giro da parte di Jacqueline o se piuttosto vi sia dietro qualcosa di più oscuro.
Un’ultima annotazione va fatta per quanto riguarda le musiche: come il miglior Kubrick, anche Weiner opta per l’inserimento di pezzi di musica classica firmati da Vivaldi, Rachmaninov e Prokof’ev. Il risultato finale non solo amplifica enormemente la potenza delle singole scene (si pensi all’arrivo di Jacqueline per le riprese finali sulle note della danza dei cavalieri), ma restituisce anche quell’idea di attaccamento al passato, glorioso e raffinato ma pur sempre passato, che ben si confà alla storia di una Romanoff che dirige una serie sui Romanov.
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The Royal We 1×02 | ND milioni – ND rating |
House Of Special Purpose 1×03 | ND milioni – ND rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.