Trust, serie antologica di FX, è l’ennesima conferma di quanto detto in questa introduzione: lo show creato da Simon Beaufoy e che si è potuto fregiare della visionaria regia di Danny Boyle (anche produttore esecutivo), infatti, è sicuramente uno dei prodotti più solidi di questa prima metà di 2018 (che, a dirla tutta, non è stata propriamente entusiasmante, al di là delle note positive rappresentate da Killing Eve, Barry e, in parte, Safe). Nel corso di questi nove episodi, e con il season finale alle porte, infatti, ha dimostrato di poter ambire a toccare vette molto alte, dal punto di vista qualitativo, e di potervi rimanere con una costanza sorprendente e praticamente ininterrotta.
“I washed his hair as a baby, kissed him when he went to sleep at night, kissed him in the morning, tucked his hair behind his ears every when he went to school. This is my son’s.”
Come detto in precedenza, Trust è riuscito a mantenere una qualità sempre elevata; questa costanza, paradossalmente, può avere un inaspettato effetto negativo, ovvero quello di far notare in maniera attenuata allo spettatore che ci si trova nel momento clou della narrazione, quando tutti i nodi vengono al pettine. Il motivo è presto detto: di solito gli episodi prima del gran finale tendono a rallentare il ritmo e a prendersi il tempo di dipanare tutte le storyline; facendo ciò, inevitabilmente la qualità può risentirne e non essere dello stesso livello delle puntate più iconiche della serie. Con Trust questo non è successo, e non perché non ci siano stati episodi di transizione o di preparazione (basti pensare a “Kodachrome”), ma perché essi hanno mantenuto un ritmo sorprendente e non hanno spostato affatto l’asticella verso il basso. L’effetto di questo ottimo lavoro si è potuto vedere in questa puntata, alla quale ci si è approcciati ad una velocità altissima, mantenuta anche durante questi 48 minuti; quando hanno iniziato a scorrere i titoli di coda, ci si è accorti di come questa volta sì, il rapimento era davvero finito, il piano di Don Salvatore e soci era riuscito, e Gayle poteva finalmente riabbracciare suo figlio.
Parlando di Gayle, non si può non sottolineare il suo ruolo fondamentale, e la forza del suo carattere, di una donna che ha sempre lottato per poter far tornare il giovane Paul a casa sano e salvo, spesso senza trovare nessun alleato; ciò è tanto vero che, per trovare una spalla amica, non si è potuta affidare al padre dei suoi figli, o al suocero, e neanche al suo compagno (o, meglio, ex compagno), ma ad un investigatore privato texano, ossia ad una persona che, in teoria, sarebbe dovuta essere lì per motivi esclusivamente lavorativi. Ad un certo punto, Gayle definisce Fletcher “l’uomo più gentile che abbia mai conosciuto”, a simboleggiare un legame, tra i due, di sincera stima e di reciproco supporto che è andato crescendo nel tempo. Il personaggio di Brendan Fraser, con i suoi modi un po’ stereotipati da gentiluomo del sud e la sua pacatezza (nonostante l’aspetto un po’ intimidatorio da cowboy), nel corso delle puntate è riuscito ad affermarsi come personaggio a tutto tondo, nonostante i pochi dialoghi a lui riservati. In fondo, è questa la grande capacità di Trust, ossia l’essere riuscita a creare uno show incredibilmente corale in poche puntate, creando una moltitudine di personaggi tridimensionali.
Già, moltitudine, perché oltre a Gayle, Fletcher e, ovviamente, a J. Paul Getty senior, non si può non parlare del gruppo di italiani; gli autori si sarebbero potuti limitare a descriverli come dei semplici criminali, spietati e poco caratterizzati, ma non l’hanno fatto. Sia chiaro, la spietatezza non manca, ma è stata integrata con altre dinamiche, che mostrano di aver appreso e assimilato la cultura di quelle zone d’Italia, soprattutto in quell’epoca. Per questo motivo, abbiamo il conflitto tra il boss vecchio stile che guarda all’uovo oggi (Don Salvatore) e al giovane che punta alla gallina, per essere all’altezza degli altri clan (Primo), senza dimenticare le lotte di un uomo che fa di tutto per mandare il figlio via da quelle persone e da quella mentalità (la felicità nel suo volto quando scopre che il taglio dell’orecchio non è stato un’idea di Francesco vale più di mille parole).
“Oh, my baby. Oh, my boy. Oh, my boy.”
La scelta di dedicare un episodio conclusivo per analizzare le varie storyline dopo il rapimento è più che mai azzeccata, soprattutto perché dare un lieto fine alla storia del giovane Paul sarebbe stato falso e fuori luogo, data l’infelice vita del ragazzo; inoltre, la scelta è corretta anche perché lo show si chiama Trust, non Kidnapping, quindi il rapimento era sì un elemento molto importante, ma non onnicomprensivo (il discorso è simile a quello sulla seconda stagione di American Crime Story).
Puntando solo sul rapimento, sarebbero bastati solo 3 o 4 episodi; la scelta, invece, è stata quella di utilizzare un fatto di cronaca per analizzare, in contemporanea, due spaccati di vita totalmente diversi, vale a dire quello delle ‘ndrine calabresi e quello dell’alta borghesia anglosassone. Per tutta questa serie di motivi, non si può che attendere con ansia gli ultimi minuti, per soffrire assieme al giovane Paul e per osservare la fine delle parabole di Getty Senior (sempre più solo), don Salvatore, Primo e di tutti gli altri personaggi che hanno reso imperdibile questa prima stagione.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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In The Name Of The Father 1×08 | 0.57 milioni – 0.16 rating |
White Car In A Snowstorm 1×09 | 0.54 milioni – 0.17 rating |
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Romano, studente di scienze politiche, appassionato di serie tv crime. Più il mistero è intricato, meglio è. Cerco di dimenticare di essere anche tifoso della Roma.
… E ora qualcuno insegni a Murphy come si rappresentano le realtà italiane. In questo ha solo da imparare.