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Una tendenza tipica di Vikings fin dalla prima stagione è il progressivo allargamento dell’orizzonte geografico in cui la trama si svolge: Ragnar e i suoi compagni sono partiti dalla piccola Kattegat per approdare in Inghilterra, hanno messo piede in Francia e hanno colonizzato la Normandia, sono giunti fin nel Mediterraneo a sud e ai confini della terraferma a nord. Del resto l’epopea dei Vichinghi non è solo fatta di razzie e massacri, ma anche e soprattutto di esplorazioni, commerci e insediamenti dal cuore della Russia a est al Nord America ad ovest; e se i Vichinghi di History non sembrano ancora in procinto di arrivare nel continente americano (ma chissà se vi arriveranno in una delle prossime stagioni) per lo meno sono sul punto di dare inizio alla colonizzazione dell’Islanda.
Floki torna a Kattegat alla ricerca di coloni per popolare la terra degli dei che ha scoperto a nord, ma è una Kattegat molto diversa quella che si trova di fronte: non c’è quasi nessun volto noto, nessun familiare ad attenderlo, se non una Lagherta molto meno amichevole di quanto ci si potesse aspettare e un Ubbe foriero di notizie tutt’altro che positive, riguardanti la sua nuova faida coi fratelli. Tutto è cambiato intorno a lui, eppure Floki è sempre lo stesso: il Norreno fanatico, fedele agli dei e ostile al nuovo, al diverso, il costruttore di navi. Creare una nuova patria in Islanda per pochi eletti, ossia per coloro ancora fedeli alla tradizione e ai veri dei, è il naturale e, anzi, inevitabile sbocco narrativo di un personaggio che non ha più nulla a che spartire con gli intrighi politici scandinavi o le conquiste oltremare.
Se l’esplorazione a nord di Floki mira alla creazione di una società ideale e pura, quella a sud di Bjorn risponde a un bisogno ben diverso, meno pragmatico: il desiderio della scoperta, della ricerca di nuovi lidi e di nuovi popoli. Non manca certo una componente più “materiale”, la ricerca del bottino e della gloria, ma è indubbio che tra i figli di Ragnar Bjorn sia quello che ne ha ereditato la curiosità e l’interesse per il diverso, una curiosità che tuttavia può condurre a guai molto seri, come dimostra la piega che prendono gli eventi alla corte di Ziyadat Allah. L’Ifriqiya portata in scena da Michael Hirst pecca di un eccessivo uso degli stereotipi che il pubblico occidentale associa al mondo arabo, a cominciare dalla stessa ambientazione nel bel mezzo del deserto passando alla caratterizzazione dei musulmani infidi e doppiogiochisti e alle odalische, ma si tratta comunque di un mondo nuovo, un inedito orizzonte culturale e geografico da esplorare.
Soprattutto, è un mondo in cui la brutalità e la violenza, che i ben più “ingenui” Vichinghi praticano in maniera manifesta, sono sì presenti ma nascoste sotto un velo di opulenza e di lusso, in cui la politica è talmente complessa che non esistono solo alleati e nemici ma anche nemici segretamente alleati e alleati che segretamente complottano gli uni contro gli altri; è un mondo in cui non c’è nemmeno spazio per il rispetto dell’avversario, degradato anzi al livello delle bestie e consumato in un banchetto all’insaputa dei commensali, come fece Tantalo con gli déi dell’Olimpo. Non manca nemmeno qualche momento più divertente, che vede Halfdan alle prese con un’odalisca dalla marcia in più (letteralmente) e che tuttavia alleggerisce solo parzialmente una tensione impossibile da eliminare completamente, perché la sensazione che dietro la maschera di ospitalità dell’emiro aghlabide ci sia altro rimane sempre forte e trova conferma nella parte finale dell’episodio.
Floki torna a Kattegat alla ricerca di coloni per popolare la terra degli dei che ha scoperto a nord, ma è una Kattegat molto diversa quella che si trova di fronte: non c’è quasi nessun volto noto, nessun familiare ad attenderlo, se non una Lagherta molto meno amichevole di quanto ci si potesse aspettare e un Ubbe foriero di notizie tutt’altro che positive, riguardanti la sua nuova faida coi fratelli. Tutto è cambiato intorno a lui, eppure Floki è sempre lo stesso: il Norreno fanatico, fedele agli dei e ostile al nuovo, al diverso, il costruttore di navi. Creare una nuova patria in Islanda per pochi eletti, ossia per coloro ancora fedeli alla tradizione e ai veri dei, è il naturale e, anzi, inevitabile sbocco narrativo di un personaggio che non ha più nulla a che spartire con gli intrighi politici scandinavi o le conquiste oltremare.
Se l’esplorazione a nord di Floki mira alla creazione di una società ideale e pura, quella a sud di Bjorn risponde a un bisogno ben diverso, meno pragmatico: il desiderio della scoperta, della ricerca di nuovi lidi e di nuovi popoli. Non manca certo una componente più “materiale”, la ricerca del bottino e della gloria, ma è indubbio che tra i figli di Ragnar Bjorn sia quello che ne ha ereditato la curiosità e l’interesse per il diverso, una curiosità che tuttavia può condurre a guai molto seri, come dimostra la piega che prendono gli eventi alla corte di Ziyadat Allah. L’Ifriqiya portata in scena da Michael Hirst pecca di un eccessivo uso degli stereotipi che il pubblico occidentale associa al mondo arabo, a cominciare dalla stessa ambientazione nel bel mezzo del deserto passando alla caratterizzazione dei musulmani infidi e doppiogiochisti e alle odalische, ma si tratta comunque di un mondo nuovo, un inedito orizzonte culturale e geografico da esplorare.
Soprattutto, è un mondo in cui la brutalità e la violenza, che i ben più “ingenui” Vichinghi praticano in maniera manifesta, sono sì presenti ma nascoste sotto un velo di opulenza e di lusso, in cui la politica è talmente complessa che non esistono solo alleati e nemici ma anche nemici segretamente alleati e alleati che segretamente complottano gli uni contro gli altri; è un mondo in cui non c’è nemmeno spazio per il rispetto dell’avversario, degradato anzi al livello delle bestie e consumato in un banchetto all’insaputa dei commensali, come fece Tantalo con gli déi dell’Olimpo. Non manca nemmeno qualche momento più divertente, che vede Halfdan alle prese con un’odalisca dalla marcia in più (letteralmente) e che tuttavia alleggerisce solo parzialmente una tensione impossibile da eliminare completamente, perché la sensazione che dietro la maschera di ospitalità dell’emiro aghlabide ci sia altro rimane sempre forte e trova conferma nella parte finale dell’episodio.
Il terzo filone narrativo di “The Prisoner” è quello britannico, che si apre laddove si era chiuso “The Plan”: gli Anglosassoni sono entrati a York senza aver incontrato alcuna resistenza, ma Heahmund fiuta che c’è qualcosa che non va. Immancabilmente si scopre che dietro l’assenza apparente degli assediati si nasconde l’ennesimo piano geniale di Ivar, mentre re Aethewulf e i suoi rimediano l’ennesima figuraccia, perdendo in maniera a dir poco ridicola. Con la seconda battaglia di York si consolida un sospetto sorto già nei passati episodi, ossia che per esigenze di trama e di storia gli Anglosassoni sono resi fin troppo stupidi sullo schermo, praticamente dei decerebrati che a questo giro lasciano uscire i Vichinghi uno alla volta dalle fogne senza provare a fermarli, quando sarebbe stato logico attaccarli proprio nel momento della risalita, quando non potevano difendersi. Eppure sarebbe bastato poco per rendere credibile la scena: ad esempio, si potevano mostrare i Vichinghi venir fuori dalle fogne in una stradina secondaria, in una parte della città dove non c’erano soldati, e non nel bel mezzo dell’esercito di Aethelwulf. Che Ivar sia all’apice della sua parabola militare ci sta, così dice la storia; che il nuovo re di Wessex sia un pessimo stratega ci può anche stare, benché qui la storia racconti diversamente; ma che per rendere questi due aspetti sullo schermo si scelga di rappresentare gli Anglosassoni come dei completi idioti non è accettabile, mina il realismo della serie.
Tuttavia c’è un risvolto positivo in questa seconda battaglia di York: l’incontro-scontro tra Heahmund e Ivar, tra il vescovo-guerriero prototipo dei Templari e la furia norrena che a dispetto della menomazione fisica si è imposta alla guida della Grande Armata Danese. Tra i due c’è rispetto, il classico rispetto tra due avversari che riconoscono l’uno il valore dell’altro sul campo di battaglia; ma c’è rispetto persino nella prigionia e nella decisione di non condannare il vescovo alle solite torture che Ivar riserva ai cristiani, decidendo anzi di portarlo con sé nel viaggio di ritorno in Scandinavia. Ovviamente quello che manca è il rispetto per la cultura e la religione altrui: Ivar non è Ragnar, Heahmund non è Ecbert né Athelstan, possono rispettare l’uno la forza e il valore bellico dell’altro ma non c’è quell’interesse, quella curiosità verso il mondo dell’altro.
Come si è detto, la curiosità è un tratto di Bjorn, non di Ivar, che dal genitore ha ereditato piuttosto la follia, l’astuzia, l’ambizione, così come Ubbe ne ha ereditato la natura di contadino, di uomo che nonostante tutto vuole creare una nazione di agricoltori e non solo di guerrieri. A modo loro, e seppur imprigionati in una certa caratterizzazione monodimensionale, i tre eredi del Lothbrok possono vantare una propria fisionomia narrativa, cosa invece completamente assente finora in Hvitserk, figurina incolore e senza spessore che è sempre stato caratterizzato come spalla di uno degli altri fratelli: prima Bjorn, poi Ubbe, adesso Ivar. Considerando le potenzialità del personaggio semi-leggendario, sarebbe un vero peccato se continuasse a rimanere in questo stato e non ricevesse il giusto approfondimento.
Come si è detto, la curiosità è un tratto di Bjorn, non di Ivar, che dal genitore ha ereditato piuttosto la follia, l’astuzia, l’ambizione, così come Ubbe ne ha ereditato la natura di contadino, di uomo che nonostante tutto vuole creare una nazione di agricoltori e non solo di guerrieri. A modo loro, e seppur imprigionati in una certa caratterizzazione monodimensionale, i tre eredi del Lothbrok possono vantare una propria fisionomia narrativa, cosa invece completamente assente finora in Hvitserk, figurina incolore e senza spessore che è sempre stato caratterizzato come spalla di uno degli altri fratelli: prima Bjorn, poi Ubbe, adesso Ivar. Considerando le potenzialità del personaggio semi-leggendario, sarebbe un vero peccato se continuasse a rimanere in questo stato e non ricevesse il giusto approfondimento.
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La quinta stagione di Vikings per ora sembra perfettamente in grado di reggere anche senza i suoi personaggi di punta (Ragnar, Ecbert, Rollo). Quanto questa qualità potrà durare ancora è tutto da vedere, ma per il momento l’interesse e la curiosità di scoprire come andranno a finire i diversi filoni narrativi sono ancora forti.
The Plan 5×04 | ND milioni – ND rating |
The Prisoner 5×05 | ND milioni – ND rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.