“I think the Nazis just hit Washington.”
La seconda stagione di TMITHC volge al termine di questo ciclo di episodi concludendo al tempo stesso praticamente tutte le storyline aperte dal pilot a questa parte. Una seconda tranche estremamente particolare dove la lentezza narrativa ha fatto da padrona assoluta. Una seconda tranche, però che si è presa (anche fin troppo) il tempo necessario per poter dislocare nuovamente i personaggi in giro per l’ucronico mondo di P. K. Dick facendoli interagire tra di loro alla ricerca della miglior alchimia possibile. A grandi linee, quello che era stato proposto nella prima stagione con l’interazione tra Juliana e Joe (posto trasversalmente al solito distinguo tra bene e male) viene qui amplificato e assegnato alla quasi totalità dei personaggi che si trovano dunque in una posizione estremamente dinamica, al di là di ogni confine.
Di difetti, come sottolineato lungo tutte le nostre recensioni, ce ne sono stati in abbondanza, facilmente attribuibili alla mancanza di uno showrunner di peso che sapesse gestire in modo più equilibrato l’evoluzione della trama nel corso dei dieci episodi. Certo, Spotnitz non c’è stato e si è visto, però… stop. Molto probabilmente TMITHC non ascenderà nell’Olimpo Seriale degli indimenticabili ma dopo aver speso fiumi di parole (giustificati) sui difetti, dopo la visione di questo season finale si può benissimo riaprire l’occhio chiuso per caritatevole indulgenza e godersi appieno lo sfavillante spettacolo di regia e recitazione – ai confini del perfetto – messo in mostra da “Fallout”.
La parola d’ordine attraverso la quale leggere la più importante opera di Amazon è una sola: ambiguità. Ne avevamo avuto un assaggio più di un anno e mezzo fa quando nel primissimo season finale avevano dominato sentimenti contrastanti tra la paura per l’ucronia rappresentata da Hitler ancora vivo e il timore provato per la cospirazione nei suoi confronti. Un’ambivalenza qui riproposta con la lente d’ingrandimento posta sull’evoluzione di Frank e dei suoi nuovi amiconi, cercando di ricreare quella sensazione di disagio nello spettatore – diviso tra una sottospecie di senso di colpa e il sordo desiderio di veder trionfare personaggi carismatici ma dalla dubbia moralità.
Eppure, c’è da dire, di moralità ne è stata mostrata tanta, forse leggermente distorta, temporalmente distante dal relativismo liquido in cui siamo immersi noi oggi, ma forse proprio per questo così apprezzabile. L’ossatura di uomini come l’ispettore Kido (rivelazione di questa stagione) e dell’Obergruppenführer John Smith (conferma assoluta) nel rapporto con i loro secondi ha ricordato con facilità il rapporto cinematografico tra l’avvocato Donovan e la spia sovietica Abel nel recente capolavoro di Spielberg “Il Ponte Delle Spie”, con il quale il serial condivide numerose tematiche e parte dell’ambientazione temporale. Stoikiy muzhik. Uomini tutti d’un pezzo. “In a world on the brink the difference between war and peace was one honest man“, recitava la tagline del film, e allo stesso modo potrebbe risuonare il leitmotiv che ha animato fin qui TMITHC. Ha un po’ il sapore della beffa, dover tifare affinché gli uomini più crudeli d’America riescano a trionfare sulle avversità e riconsegnino il mondo alla pace, ma è il pregio più grande di cui il serial possa fregiarsi.
“You think I wanted to hurt you? No, the only thing I knew was that you, Juliana Crain, were the only hope any of us had. You asked me if you were in the films. You are, you were, over and over again. You were always you. You and your unnatural consistent mind. (…) I got a woman who would bet on the best of us, who bet on people, no matter what the world said about who they were, who they should be. That woman would do anything to save a sick boy – a Nazi boy, even – because she would believe he deserved the chance, as slim as it might be, to live a valuable life. And I knew that was the key, the only way to make sure that your sister’s father wouldn’t prevent that boy’s father from stopping a war. Dixon died in an alley so that son of a bitch Smith could live. San Francisco is still here. Millions of people will live because of the choice you made, the goodness in you, Juliana.
One selfless act of love and hope. That’s what I put my money on.”
Una pace che, seppur materialmente generata dai burocrati delle dittature nazionalsocialiste, trova il suo originario input in altri due personaggi chiave: Juliana e Abendsen.
Se della prima si è già detto molto, del secondo, proprio a causa del minutaggio scarso concessogli, possiamo solo ora esprimere un giudizio più definito. Al di là della recitazione abbondantemente sopra il desiderabile di Stephen Root, c’è una domanda che bisogna porsi. Dentro i limiti posti dalla soggettività, per chi scrive, la risoluzione della storia dell’Uomo nell’Alto Castello onnisciente, narratore-narrato all’interno della Storia stessa è una soluzione che piace, ma è innegabile che possa far storcere il naso a qualcuno questo tentativo di unire tutti i singoli pezzi di un puzzle che forse (forse!) era meglio lasciare separati. Ancora più innegabile, però, è la potenza climatica che l’incontro tra i due porta: proprio lì, sul baratro dove la protagonista (a cui va il meritato premio per la miglior evoluzione) arriva dopo aver perso tutto – persino la falsa vita con annesse false amicizie che si era costruita in quel di New York – l’incontro con Abendsen le riconsegna le uniche cose necessarie per poter ripartire, un senso e una nuova (ritrovata) compagna con cui proseguire la sua strada.
In un mondo in cui giorno dopo giorno, notizia dopo notizia, sembra di scivolare sempre di più verso l’ucronia di Dick, o addirittura uno scenario peggiore, dovremmo far tutti tesoro dell’avventura di questi protagonisti. Non sia mai che presto ci sarà realmente bisogno di ricordare quanto valga la pena scommettere su un singolo atto di amore e di speranza.
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Detonation 2×09 | ND milioni – ND rating |
Fallout 2×10 | ND milioni – ND rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.