“Do they care if we live or die? They care about the money.”
Alla base di Orange Is The New Black c’è il cambiamento; ed è interessante se si pensa che questo show è ambientato in un unico luogo, il carcere di Litchfield. La serie di Jenji Kohan punta tutto sulla maturazione, sull’evoluzione: si modificano i personaggi e la loro storia, elementi condizionati da ciò che accade all’interno di quelle mura, tra le detenute e da ciò che avviene fuori, riverberato sulle finestre del carcere. Se prima il mondo dietro le sbarre era osservato e studiato dallo sguardo di Piper, ormai da tempo lei è solo una delle protagoniste di questo canto corale; la serie è sicuramente un dramma carcerario ma non solamente questo, è molto altro perché le dinamiche che si innescano sono le stesse della vita fuori. Sembra quasi che quelle tute, quelle restrizioni, quelle regole siano accessori casuali che determinano certo alcune situazioni ma non limitano il flusso della storia. Non è il particolare a interessare, o meglio non solo, ma il generale, che è quasi Universale.
Kohan ha analizzato maternità, religione, questioni razziali; in questa quinta stagione si pone una domanda importante: cosa accade se in una prigione le guardie perdono il controllo? Cosa succede se a prendere il potere sono delle detenute arrabbiate, deluse, dilaniate dal dolore o dalla stanchezza?
“Fuck, Marry, Frieda” si addentra ancor di più in quelle tre giornate, successive alla morte di Poussey che ha turbato e commosso gli spettatori per la violenza e l’assurdità degli avvenimenti e delle dinamiche. L’episodio entra in quei giorni di delirio – la quinta stagione racconta le vicende di quelle tre giornate – tra video fatti con i tablet (Taystee vuole mostrare al mondo cosa ha compiuto Piscatella), foto in cui si celebra quella “famiglia” sgangherata e sbagliata (fotografano tutti gli agenti che hanno in ostaggio), mentre l’agente Humprey perde coscienza per un’ischemia celebrale.
La rivolta, il caos, il delirio sono i cardini di questa anarchia “organizzata”: ora si assiste al dolore di Taystee e delle compagne, ora si partecipa alla disperazione di Soso, ora si condivide la paura di Judy King, ora si combatte una guerriglia.
E’ proprio la guerriglia a dare gli spunti più interessanti. Risulta riuscita la scelta di ribaltare l’assetto normale di Litchfield: non sono più i carnefici ad essere tali, ma sono le vittime a prendere il comando. Come in una sorta di gioco degli specchi le detenute spogliano, umiliano, perquisiscono, come avveniva a loro, gli orifizi delle guardie che spaventate pregano, implorano le nuove divinità dell’ordine e della sicurezza.
Basta togliere le divise e lo scettro del potere – la pistola – e quei lupi ora sembrano solo pecore. Quei corpi prima vessati ora vessano, quei corpi perlustrati ora perlustrano, quei corpi battuti ora picchiano. Il potere e la libertà fanno tremare i polsi e il delirio di onnipotenza abita le donne che possono almeno pensare di fare ciò che vogliono su coloro che prima hanno fatto ciò che volevano su di loro: le nazi giocano a “scopa, sposa, uccidi” con i prigionieri che diventano oggetti sessuali, puri e semplici.
E’ degno di nota che in questo secondo episodio ci siano flashback dedicati a Frieda, alla piccola Frieda che tenta di diventare uno scout della natura, combattente in erba in grado di fare tutto (“Ready for any and all things”). La donna rappresenta ora un altro modello di femminilità, come un tempo non era la tipica bambina (“She is an alien from outer space”) e per questo veniva derisa, perché diversa dalle altre (le sue compagne la chiamano “sloppy”, “smelly” ).
Da ragazzina era in grado di salvarsi in ogni circostanza e adesso proprio per la sua capacità viene presa ad esempio perché le detenute devono saper superare i problemi e sopravvivere. La storia di Frieda viene utilizzata perché in “Fuck, Marry, Frieda” c’è una caccia all’uomo – si riuniscono tutti gli agenti nella Cappella -, uomo che diventa un animale da scovare e mettere dietro le sbarre. Un uomo che perde la sua umanità, diventando un pezzo di carne iperumanizzato (l’eccitamento di Luschek, il bisogno di insulina di un altra guardia) su una sorta di palcoscenico, la Cappella. Proprio qui, nel luogo della sacralità, avviene l’abbrutimento, come spesso accade quando il debole si ribella e ottiene il potere. Quelle immagini lo spettatore di Orange Is The New Black le conosce, le ha viste e riviste in queste cinque stagioni, ora però cambiano gli interpreti dei soprusi e delle umiliazioni.
Le spettatrici-detenute, di fronte a quel palco, assistono spietate e esaltate a quella “Road To Guantanamo” al contrario, urlano, suggeriscono come infierire su quei fantocci che facevano tanta paura, su coloro che prima erano il potere e ora sono solo uomini e donne in biancheria intima depotenziati e demitizzati. Si crea qualcosa che possiamo chiamare responsabilità collettiva anche se ciascuno vi partecipa per un motivo diverso: le nere per onorare/vendicare la memoria di Poussey, le portoricane per il desiderio di supremazia, le nazi per la voglia di violenza e di divertirsi un po’.
C’è un’ombra però, nonostante il caos e l’eccitazione per la rivolta, ed è la paura di ciò che succederà dopo, quando Piscatella irromperà nella prigione. Sono poche coloro che si tengono in disparte, la prima è Alex con dietro Piper, la seconda è Dayanara che dopo aver acceso la miccia, ha un ripensamento probabilmente dovuto alla perdita della pistola (in realtà lo spettatore sa che le è stata rubata) senza la quale si sente depotenziata.
Ancora una volta Orange Is The New Black si mostra per quello che è, un affresco ironico, grottesco, poetico, un trattato politico e femminista in grado di diventare spunto per discorsi che non riguardano solo la situazione carceraria, le sue limitazioni, ma è metafora del mondo. Litchfield è una città a tutti gli effetti, con i quartieri, le divisioni, gli scontri, l’amore, le amicizie, i dolori, le repressioni e le ribellioni.
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Riot FOMO 5×01 | ND milioni – ND rating |
Fuck, Marry, Frieda 5×02 | ND milioni – ND rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.