“I never expected to make it out of this alive. That’s why I wear a skull. It’s a memento mori.”
Guardando l’episodio non si può far a meno di pensare alla citazione inserita in apertura, letta in una recente run del Punitore durata 20 numeri interamente scritta da Nathan Edmondson. Nell’interpretazione di Edmondson si poneva un particolare accento su due aspetti: la missione del Punitore e la mortalità di Frank Castle. Se già gli eroi in costume (dotati di poterti allucinanti) faticano anche solo ad arginare la criminalità, come spera Castle – solo, umano e mortale – di spazzarla completamente? Per questo la locuzione latina memento mori tornava di continuo, per tratteggiare un uomo tanto cosciente dei suoi limiti quanto incurante dei rischi e le conseguenze.
Ciò che fa da denominatore comune al 90% delle interpretazioni del Punitore, è il modo in cui viene tratteggiato come un uomo spezzato: solo e alla mercé della sua bruciante ossessione. Queste versione televisiva portata da Steve Lightfoot e Jon Bernthal non è da meno e, anzi, le immagini prima descritte di Frank Castle regnano sovrane in questo adattamento Marvel Studios/Netflix.
Il Punitore è un personaggio che raramente subisce cambiamenti, al massimo vengono organizzate delle run in cui vengono ribaditi vecchi concetti con parole nuove, aggiornando il tutto al tempo in cui si scrive, ma il tutto rimane immobile. Il perché cambi rivoluzionari di status-quo e caratterizzazione siano così rari – e quasi evitati come la peste – è perché The Punisher è un personaggio che più rimane quello che è e più funziona. Purtroppo questa caratteristica non funziona nel contesto televisivo odierno dove, sia autori che pubblico, sono ormai abituati a trame che favoriscono l’evoluzione dei suoi protagonisti.
Un personaggio del genere, per quanto portatore di tematiche affascinanti, avrebbe potuto funzionare di più in un format procedurale, formula che si può dire quasi defunta oggi. Lightfoot – con l’intervento di un Bernthal sempre più in parte episodio dopo episodio – prende come riferimento l’interpretazione di Edmondson, tratteggiando un personaggio complesso, ambiguo, pieno di contraddizioni ed estremamente mortale.
Se da una parte si è riuscito a rendere appetibile questo personaggio al pubblico del piccolo schermo, quelli che invece lo conoscono già dal fumetto potrebbe storcere il naso per alcuni cambiamenti che hanno leggermente snaturato la sua persona. Per fare un esempio, in certi momenti Frank ammette tranquillamente di aver preferito la guerra piuttosto che la vita casalinga; benché questo lato sia parte del personaggio, Castle si è sempre vergognato di pensarla in questa maniera poiché non ha mai voluto ammettere che, in fondo, un po’ (tanto) gli piace uccidere. Oppure il fatto che Frank partecipi alla terapia di gruppo per diventare una persona migliore quando, in realtà, dopo la morte della famiglia Castle non chiede niente di più che un altro giorno da vivere come il Punitore. A livello seriale è comprensibilissima come scelta in ottica di una seconda stagione e di un’evoluzione del personaggio che necessariamente deve esserci a livello seriale.
“Memento Mori”, come le altre serie Netflix sui quattro Difensori, è la conclusione di una stagione che si è preoccupata di dare un’origine al protagonista, oltre che una prima avventura che potesse delineare pregi e difetti del personaggio principale, spendendo molto tempo nella creazione di supporter character e di nemici che dessero profondità alla narrazione. Nel farlo con il Punitore, lo spettatore capisce – soprattutto in molte sequenze di questa puntata – che per un personaggio del genere c’è una ed una sola strada, ed è per questo che Lightfoot, come Edmondson in tempi non sospetti, ripesca il concetto del memento mori. Frank Castle è destinato a morire riempiendo con vorace fame bulimica quel buco che sente dalla morte della sua famiglia con altrettante morti e proiettili, colpendo duro la criminalità e lasciandosi dietro solo persone che farebbe il diavolo a quattro pur di vederlo morto, il tutto facendolo da solo. La prova di tutto ciò sta, in particolare, in due scene: l’addio a Micro e la lotta contro Billy Russo.
Nel salutare il suo alleato, David invita Frank ad entrare in casa e godersi un pranzo in famiglia. La declinazione di quest’ultimo simboleggia il rifiuto per Castle nel cercarsi una nuova famiglia, in quanto la sua c’è già stata ed ormai è così pieno di rabbia e voglia di morte da non poter più stare sotto nessun altro tetto famigliare. In più, nel dire di no a David, Frank tocca il furgone, che è il Battle Van del Punitore: la sua base mobile. Quella è la sua casa, ora. Quella è la sua famiglia adesso. E quella sarà la sua tomba un domani.
Per Russo, invece, come largamente anticipato nel sesto episodio, lo scontro tra Billy e Frank si conclude con la deturpazione facciale dello scopamico della Madani, atto che provocherà la nascita di Mosaico. A causa del rifacimento della relazione tra i due, lo scontro si presenta allo spettatore su un piano molto più personale, cosa che nel fumetto accadrà in seguito allo sfregio. Tuttavia questa resa dei conti si gusta molto di più su schermo che su carta, in quanto non solo è in linea con le esigenze odierne delle serie tv, ma rappresenta anche un grande (e sanguinario) raggiungimento del climax della trama portante.
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