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Come fa a spiccare un “anonimo” quarto episodio di una miniserie assolutamente omogenea? “Episode 4” gioca su un contrasto assoluto tra le due metà che lo costituiscono, gioca con le aspettative di uno spettatore speranzoso in un contesto (forse) totalmente senza speranza. Gioca inoltre con quello che forse è l’argomento fondante dello show: non il lutto, bensì il suicidio e la concezione di esso. Non un qualcosa da demonizzare, ma una liberazione, l’abbandono di una vita piena di sofferenza nel momento in cui viene a mancare un punto di riferimento. Alla fine il protagonista non vede sventato dal cane un nuovo tentativo di suicidio, bensì aiuta un’altra persona a commetterlo.
Riscontrabili, nella prima metà di episodio, elementi che in qualche modo illudono il pubblico che nell’avanzare della stagione possa esserci un progresso di qualche tipo. Dalla pacca sulle spalle al collega preso spesso di mira, alle risate in ospedale con il padre e l’infermiera a cui Tony si decide a chiedere scusa; dalle risate al cimitero, al consenso dell’appuntamento organizzato dal cognato; dallo shopping, al momento del confronto con la prostituta, in cui si respira umanità e i già citati progressi. Eppure, a pensarci bene, Tony pronuncia ad inizio episodio una frase abbastanza iconica, facendo riferimento al fatto che qualsiasi momento apparentemente spensierato nasconde in realtà una sofferenza interiore inimmaginabile, invisibile dall’esterno. Quasi un monito per l’ignaro pubblico.
Infatti nella seconda metà, a partire dall’appuntamento non splendidamente riuscito, si ripiomba in un universo fatto di oscurità e nichilismo. Lo stesso momento in cui Tony sventa un’altra rapina dimostra comunque uno scarso senso di conservazione. Si torna quindi in quel punto di non ritorno che lo spettatore è sempre portato a sperare che si sovverta.
Le scene finali parlano da sole. L’overdose dello spacciatore non è lasciata all’immaginazione dello spettatore o in una sospensione fino al prossimo episodio. Un’alternanza di immagini rende altamente esplicita la differenza tra la persona che smette di soffrire e quella che continua a soffrire. Ma anche di quella che toglie qualsiasi valore alla vita, spingendo un’altra ad assecondare desideri di morte. Il personaggio di Julian, grazie anche ad un’ottima interpretazione, assume una profondità impensabile nel primo episodio quando viene presentato con una connotazione altamente negativa.
Proprio quest’ultimo aspetto è quello che funziona in After Life. La scrittura di questi primi quattro episodi e la caratterizzazione dei personaggi creano l’illusione di avere di fronte una serie che va avanti da diverse stagioni. Ogni contesto (comunque di breve minutaggio) in cui Tony si trova è un universo a sé stante, caratterizzante la vita del protagonista. Come se ogni puntata fosse composta da una successione di piccoli quadri familiari e identificabili per lo spettatore: tanti punti di riferimento di fila che aumentano l’attaccamento verso il personaggio. Creare ciclicità all’interno di una miniserie di soli sei episodi è frutto di buona scrittura. Far scorrere rapidamente una mezz’ora scarsa in cui si parla di lutto e suicidio, il tutto ambientato in un già non allegro contesto suburbano britannico, anche questo è senz’altro un merito. La bravura di Ricky Gervais nel sovvertire radicalmente la sua immagine tendenzialmente comica è poi la ciliegina sulla torta di un prodotto di cui, già si sa, si parlerà molto poco.
Riscontrabili, nella prima metà di episodio, elementi che in qualche modo illudono il pubblico che nell’avanzare della stagione possa esserci un progresso di qualche tipo. Dalla pacca sulle spalle al collega preso spesso di mira, alle risate in ospedale con il padre e l’infermiera a cui Tony si decide a chiedere scusa; dalle risate al cimitero, al consenso dell’appuntamento organizzato dal cognato; dallo shopping, al momento del confronto con la prostituta, in cui si respira umanità e i già citati progressi. Eppure, a pensarci bene, Tony pronuncia ad inizio episodio una frase abbastanza iconica, facendo riferimento al fatto che qualsiasi momento apparentemente spensierato nasconde in realtà una sofferenza interiore inimmaginabile, invisibile dall’esterno. Quasi un monito per l’ignaro pubblico.
Infatti nella seconda metà, a partire dall’appuntamento non splendidamente riuscito, si ripiomba in un universo fatto di oscurità e nichilismo. Lo stesso momento in cui Tony sventa un’altra rapina dimostra comunque uno scarso senso di conservazione. Si torna quindi in quel punto di non ritorno che lo spettatore è sempre portato a sperare che si sovverta.
Le scene finali parlano da sole. L’overdose dello spacciatore non è lasciata all’immaginazione dello spettatore o in una sospensione fino al prossimo episodio. Un’alternanza di immagini rende altamente esplicita la differenza tra la persona che smette di soffrire e quella che continua a soffrire. Ma anche di quella che toglie qualsiasi valore alla vita, spingendo un’altra ad assecondare desideri di morte. Il personaggio di Julian, grazie anche ad un’ottima interpretazione, assume una profondità impensabile nel primo episodio quando viene presentato con una connotazione altamente negativa.
Proprio quest’ultimo aspetto è quello che funziona in After Life. La scrittura di questi primi quattro episodi e la caratterizzazione dei personaggi creano l’illusione di avere di fronte una serie che va avanti da diverse stagioni. Ogni contesto (comunque di breve minutaggio) in cui Tony si trova è un universo a sé stante, caratterizzante la vita del protagonista. Come se ogni puntata fosse composta da una successione di piccoli quadri familiari e identificabili per lo spettatore: tanti punti di riferimento di fila che aumentano l’attaccamento verso il personaggio. Creare ciclicità all’interno di una miniserie di soli sei episodi è frutto di buona scrittura. Far scorrere rapidamente una mezz’ora scarsa in cui si parla di lutto e suicidio, il tutto ambientato in un già non allegro contesto suburbano britannico, anche questo è senz’altro un merito. La bravura di Ricky Gervais nel sovvertire radicalmente la sua immagine tendenzialmente comica è poi la ciliegina sulla torta di un prodotto di cui, già si sa, si parlerà molto poco.
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Che un comico riesca in maniera così efficace a rendere scorrevole e profonda una miniserie pubblicizzata pochissimo a proposito dell’elaborazione di un lutto non è qualcosa di così scontato. L’episodio con una delle svolte di trama più crude e crudeli finora non può che guadagnarsi un bel Bless.
Episode 3 1×03 | ND milioni – ND rating |
Episode 4 1×04 | ND milioni – ND rating |
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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.