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Questa recensione è capitata nelle mani migliori da un lato, nelle mani peggiori dall’altro. Partiamo dal perché l’intero incipit a sfondo musicale ispira particolarmente il recensore.
In ambito artistico/performativo esiste da sempre un particolare dibattito: la perfezione si sposa con l’arte? L’arte intesa come “artificio”, come qualcosa di prodotto, per definizione stessa deve avere al suo interno elementi di imperfezione tipici dell’essere umano. Come il padre, ad inizio episodio, evidenzia le trasgressioni a cui Bach si abbandona nella sua meravigliosa Ciaccona (dalla Partita BWV 1004), così qualsiasi capolavoro prodotto da mente umana, deve per forza di cose contenere al suo interno irregolarità, eccezioni, imperfezioni. Esistono da alcuni anni a questa parte software di scrittura musicale che ovviamente riproducono in formato MIDI un modello di quanto scritto. Ascoltando un risultato tecnicamente impeccabile, salta immediatamente all’orecchio come il prodotto sia scarno, totalmente assente del fattore umano (considerando anche che si parla di suoni campionati). Infatti, il montaggio suggerisce un collegamento tra ciò che un figlio cresciuto a musica e tecnologia produce e il funerale del padre, figura così legata al valore umano e creativo della musica. Questo dualismo è quanto meglio si sposa con il dualismo proposto dal racconto stesso, ovvero divinità antiche, create dalle superstizioni e credenze di tutta la gente del mondo che si è spostata negli USA, e i freddi nuovi dei, figli della rivoluzione (o meglio, delle rivoluzioni) tecnologica.
Quanto scritto fino ad ora è anche il motivo per cui American Gods non è in questo momento una serie adatta ad un recensore dalla scarsa attenzione e con la tendenza a vagare e divagare su particolari. Non vuole essere questa una giustificazione sul perché non si abbia la più pallida idea della natura dei vari dialoghi tra i diversi personaggi, o sul fatto che una volta ascoltati la distrazione abbia preso il sopravvento. Occorrerebbe forse chiedersi se invece la selezione di stimoli di chi scrive – abituato a seguire contemporaneamente differenti serie – non abbia scartato momenti dello show tendenzialmente attendisti.
In ambito artistico/performativo esiste da sempre un particolare dibattito: la perfezione si sposa con l’arte? L’arte intesa come “artificio”, come qualcosa di prodotto, per definizione stessa deve avere al suo interno elementi di imperfezione tipici dell’essere umano. Come il padre, ad inizio episodio, evidenzia le trasgressioni a cui Bach si abbandona nella sua meravigliosa Ciaccona (dalla Partita BWV 1004), così qualsiasi capolavoro prodotto da mente umana, deve per forza di cose contenere al suo interno irregolarità, eccezioni, imperfezioni. Esistono da alcuni anni a questa parte software di scrittura musicale che ovviamente riproducono in formato MIDI un modello di quanto scritto. Ascoltando un risultato tecnicamente impeccabile, salta immediatamente all’orecchio come il prodotto sia scarno, totalmente assente del fattore umano (considerando anche che si parla di suoni campionati). Infatti, il montaggio suggerisce un collegamento tra ciò che un figlio cresciuto a musica e tecnologia produce e il funerale del padre, figura così legata al valore umano e creativo della musica. Questo dualismo è quanto meglio si sposa con il dualismo proposto dal racconto stesso, ovvero divinità antiche, create dalle superstizioni e credenze di tutta la gente del mondo che si è spostata negli USA, e i freddi nuovi dei, figli della rivoluzione (o meglio, delle rivoluzioni) tecnologica.
Quanto scritto fino ad ora è anche il motivo per cui American Gods non è in questo momento una serie adatta ad un recensore dalla scarsa attenzione e con la tendenza a vagare e divagare su particolari. Non vuole essere questa una giustificazione sul perché non si abbia la più pallida idea della natura dei vari dialoghi tra i diversi personaggi, o sul fatto che una volta ascoltati la distrazione abbia preso il sopravvento. Occorrerebbe forse chiedersi se invece la selezione di stimoli di chi scrive – abituato a seguire contemporaneamente differenti serie – non abbia scartato momenti dello show tendenzialmente attendisti.
E ora un piccolo interludio che tira inevitabilmente in ballo la differenza tra libro e serie.
Senza andare a svelare colpi di scena finali – che però per chi ha letto il lavoro di Neil Gaiman rendono ancora più lente alcune sequenze – si può dire che la base cartacea ha senz’altro una costruzione su più livelli. Tant’è che leggendola sono facilmente individuabili le tappe che possono delimitare differenti stagioni di una serie televisiva. La strada dello show sembra stia prendendo una diversa piega. Non perché per forza debba esservi chissà che fedeltà, benché stia venendo a mancare proprio quella narrazione incentrata sugli American Gods, ovvero sul percorso di formazione che il protagonista compie attraverso diversi ambienti degli Stati Uniti d’America, popolati da divinità in incognito, quasi in pensione. Dopo quattro episodi di questa seconda stagione è invece possibile notare una staticità di fondo, come a voler rimarcare la filosofia di base della narrazione. La costruzione dell’immagine dei personaggi vuole essere un’attrattiva per lo spettatore che, secondo gli sceneggiatori, dovrebbero essere attratti solo da tale estetica e poco dal contenuto dei loro discorsi e delle loro (poche) azioni.
Sicuramente bisognerà aspettarsi che qualcosa avverrà, come se tutti i dialoghi cui si assiste fossero una pentola che bolle a fuoco lento. Ciò non toglie che l’eccessivo rallentamento del racconto, nel tentativo di “estetizzare” i personaggi, riesce in certi casi a renderli quasi macchiette.
Ma in tutto questo, quale sarebbe la greatest story del titolo? No perché o veramente questi dialoghi andavano riascoltati prima di scrivere la recensione, oppure si tratta di quella mostrata ad inizio episodio, che effettivamente non era neanche tanto male.
Senza andare a svelare colpi di scena finali – che però per chi ha letto il lavoro di Neil Gaiman rendono ancora più lente alcune sequenze – si può dire che la base cartacea ha senz’altro una costruzione su più livelli. Tant’è che leggendola sono facilmente individuabili le tappe che possono delimitare differenti stagioni di una serie televisiva. La strada dello show sembra stia prendendo una diversa piega. Non perché per forza debba esservi chissà che fedeltà, benché stia venendo a mancare proprio quella narrazione incentrata sugli American Gods, ovvero sul percorso di formazione che il protagonista compie attraverso diversi ambienti degli Stati Uniti d’America, popolati da divinità in incognito, quasi in pensione. Dopo quattro episodi di questa seconda stagione è invece possibile notare una staticità di fondo, come a voler rimarcare la filosofia di base della narrazione. La costruzione dell’immagine dei personaggi vuole essere un’attrattiva per lo spettatore che, secondo gli sceneggiatori, dovrebbero essere attratti solo da tale estetica e poco dal contenuto dei loro discorsi e delle loro (poche) azioni.
Sicuramente bisognerà aspettarsi che qualcosa avverrà, come se tutti i dialoghi cui si assiste fossero una pentola che bolle a fuoco lento. Ciò non toglie che l’eccessivo rallentamento del racconto, nel tentativo di “estetizzare” i personaggi, riesce in certi casi a renderli quasi macchiette.
Ma in tutto questo, quale sarebbe la greatest story del titolo? No perché o veramente questi dialoghi andavano riascoltati prima di scrivere la recensione, oppure si tratta di quella mostrata ad inizio episodio, che effettivamente non era neanche tanto male.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Tutto molto bello e interessante, ma 54 minuti di dialoghi sui massimi sistemi e sull’essere Dei ad un certo punto toglie anche una certa percentuale di interesse nello spettatore. Si deve iniziare a fare qualcosa di più.
Muninn 2×03 | 0.32 milioni – 0.1 rating |
The Greatest Story Ever Told 2×04 | 0.34 milioni – 0.1 rating |
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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.