La precedente recensione ha inevitabilmente affrontato una tematica discretamente importante per uno degli show più seguiti e chiacchierati degli ultimi anni. Game Of Thrones si sta distaccando dalla base cartacea (almeno da quella in circolazione) e sta televisivamente iniziando a camminare sulle sue gambe.
Non tutti i recensori della serie sono lettori dell’opera di Martin, chi scrive fa parte di questa categoria. Qual è stato il principale effetto di questa notizia? O forse è meglio rivoltare la domanda. Qual era l’effetto sulle aspettative e sull’accettazione del non-lettore, quando la serie faceva affidamento alla base letteraria? Rispondendo alla seconda domanda, sicuramente ha regnato una forte accettazione per ciò che veniva narrato, che piacesse o meno: gli autori televisivi erano quasi sempre esenti da colpe o meriti per il semplice fatto che fossero dei semplici traspositori. La macchina mediatica/di marchio/commerciale/di pubblico, però, ha messo in moto qualcosa di più grande e nessuno (produttori e spettatori, forse soprattutto attori) avrebbe mai accettato di mettere in pausa la serie, in attesa di nuova materia prima.
Se, quindi, ora i lettori potranno essere condizionati da una certa mancanza di riferimenti, che dire dei non lettori? Prima non sapevamo cosa era “giusto” e cosa “sbagliato”, ora inizierà a sembrarci tutto profondamente “sbagliato” e proprio il fatto che come fruizione ci sembri tutto più “giusto” non fa che rendere il tutto ancora più “sbagliato”.
Cerchiamo di spiegarci meglio.
Siamo ancora al secondo episodio di questa stagione e sono successe delle cose importanti. Non una cosa importantissima che andrà a tracciare il resto della stagione (come accadde qui), bensì tante svolte di una certa rilevanza (esclusa ovviamente quella importantissima di fine episodio, di cui parleremo più avanti) che ci pongono di fronte ad un altro dubbio. A livello narrativo, sta per rallentare tutto come GOT ci ha abituati, oppure il condizionamento di cui sopra non è tale, ma effettivamente siamo di fronte ad un’accelerata narrativa più “consona” a tempi televisivi? Se qualcuno può essersi mai lamentato che GOT sia una serie lenta, è anche vero che ha ottenuto il successo che ha ottenuto grazie al suo particolare linguaggio. Lo si snatura mettendo il piede sull’acceleratore?
Domande che fanno sorgere altre domande e questioni. Tra cui: sempre ipotizzando una costante accelerata narrativa durante la stagione, una parte purista di noi potrebbe iniziare a scuotere la testa, un’altra parte, di fronte alla stessa qualità scenica, non potrebbe non godere per la quantità di eventi significativi che ci vengono elargiti. GOT si trasformerebbe in una versione nobile dei cosiddetti guilty pleasures (ovvero quegli show per cui viene accantonato lo spirito critico, in favore di sano e puro intrattenimento). Ed ecco la domanda: se vogliamo parlare di guilty pleasure, non è forse l’intera epopea di Martin in partenza un guilty pleasure? La narrativa in cui il corpulento scrittore ci ha immersi risponde a tutti i canoni di annullamento dello spirito critico (ed è una qualità). La commistione poi con una realizzazione scenica, scenografica e sceneggiativa così di alto profilo ha fatto il resto. La quantità di persone che segue la serie ne è una prova. Cosa ci sarebbe quindi di male a aggiungere elementi di fruizione così “pop” all’interno di un’opera che è Pop allo stato puro?
Ma forse è il caso di entrare nel merito di “Home” e del perché questo episodio abbia scatenato il Marzullo che è dentro il vostro recensore. Nella dimensione frastagliata e frammentata che caratterizza Game Of Thrones, la 6×02 non fa eccezione. Eppure – forse è il condizionamento di cui sopra che parla – ogni storyline si fa portatrice di eventi significativi, senza spazio per l’interpretazione (i dialoghi paiono indeboliti da quell’aura simbolica e allusiva che li caratterizzava, privilegiando una comunicazione più diretta). Prima sembrava che ci venisse detto “pazientate e vedrete”, ora l’impressione è quella che con ogni episodio senta la necessità di guadagnarsi il favore degli spettatori. Potremmo arrivare a parlare – con estrema cautela – di piccoli, piccolissimi, fan-service che fanno capolino. Per chiunque consideri questa esternazione come dispregiativa, esagerata e ingenerosa, si faccia riferimento al ragionamento sopra esposto. Ergo: non è un difetto.
Ritroviamo Bran, che grazie alla sua visione vede il padre, gli zii e Hodor da bambini (l’unico flashback lo avevamo avuto con la giovane Cersei, nella scorsa stagione). Non è infatti pratica così frequente quella di riproporre personaggi deceduti (seppur in altre versioni), oppure di mostrare finestre che rompessero la continuità temporale che lo show televisivo porta realisticamente avanti.
A Castle Black prosegue l’assedio nei confronti di Ser Davos e soci e proprio nel momento di citare Shining arriva la cavalleria, in un tempismo che fa tanto Deus Ex Machina, ma che altrettanto fa godere tantissimo.
Tyrion e i draghi. Per chi non avesse visto l’episodio e avesse stranamente aperto la recensione, imbattendosi nell’inizio di questo capoverso e nel precedente termine “fan-service”, potrà sicuramente intuire il discorso, associati i due elementi. Ciò non toglie nulla, tuttavia, alla bellezza della sequenza, così semplice e prevedibile nel suo svolgersi, così ben recitata da Peter Dinklage, a rivelare la profondità di uno dei personaggi più apprezzati dal grande pubblico.
A King’s Landing forse abbiamo il thumb down di turno, complice un dialogo abbastanza debole tra un imbruttito Tommen e sua madre diventata Claire Underwood. Sicuramente più efficace il confronto tra Jaime e l’High Sparrow. Tuttavia, in entrambi i casi, tutto risulta esplicito, didascalico, dritto al punto. Jaime fa allusioni alla sua poca cura dell’etica, ma lo fa con la mano sulla spada. Il personaggio interpretato da Jonathan Price fa riferimento al potere suo e della sua gente, ma non con sottili allusioni, bensì con i guardaspalle ben visibili. Occorre però vedere se questo nuovo trend esplicito sarà poi confermato nel resto della stagione, oppure se illusione figlia del condizionamento di cui sopra. Piccola parentesi occorre riservarla all’onnipresenza della Montagna, capace di sentire commentacci su Cersei, espressi in un punto X della cittadina.
Se da un lato Arya vede già la via della risoluzione (forse) per il suo stato da mendicante (avremmo in altri casi assistito al suo pseudo-addestramento con la biondina per tutta la stagione?), importante per gli spettatori è il confronto tra Lady Brienne e Sansa, la quale finalmente viene a sapere notizie sulla sorella. Sequenza questa improntata più di altre sul dialogo, ma che comunque presenta lo stesso svolte significative (compreso Theon che se ne va).
Gli stravolgimenti politici nelle Iron Islands e a Winterfell nascondono un’opposta natura. Teatrale e lievemente gratuita la prima, spettacolare e ben calcolata la seconda. Che Greyjoy senior si spinga in un ponte pericolante sotto un diluvio torrenziale richiama il deus ex machina di cui parlavamo precedentemente a proposito di Castle Black, senza considerare poi che i Greyjoy ci erano stati precedentemente mostrati con il contagocce, il coinvolgimento verso di loro non potrà mai essere alle stelle. Diverso ciò che riguarda i Bolton. Un conflitto più o meno sottinteso tra Roose e Ramsay era stato covato e fatto maturare durante la scorsa stagione. La coltellata inflitta a Roose (toh, altro evento di svolta) potrebbe anche essere un colpo a sorpresa (ovviamente tale reazione è soggettiva), così come l’esecuzione a Walda e al neonato è sospirata e senza fronzoli.
E poi…
“SI… PUO’… FARE!!!” (cit. Frankenstein Junior)
Svolta narrativa annunciata, attesa, telefonata, goduta. La prima stagione di Game Of Thrones che riprende da un cliffhanger trova una sua risoluzione quasi subito, in maniera anticlimatica, ma non per questo poco significativa. La crisi interiore di Melisandre, l’idea estemporanea di Davos, il tentativo poco convinto della sacerdotessa, la poca solennità colma di diffidenza in un luogo dove la rassegnazione è abbastanza di casa. Si sarebbe potuto aspettare un po’ di più? Forse. Abbiamo più voglia che mai che arrivi il prossimo episodio? Sì.
Il guilty pleasure ci ha avvolti. Game Of Thrones, lo show che ha guadagnato la fama di far morire gente a sorpresa (non più che in altri show, ma questa è un’altra storia), dove il Valar Morghulis era diventato mantra e slogan, Game Of Thrones ha fatto risorgere qualcuno. Solo alla sesta stagione, è vero. Era elemento già voluto da Martin (quindi in questo caso si può escludere la “libertà” televisiva, tra l’altro sempre sotto la supervisione di Martin), vero anche questo. Un tabù è stato infranto, però. Si potrebbe anche obiettare che resurrezioni vi erano state (Daenerys che non brucia, gli esperimenti sulla Montagna), ma mai erano state così annunciate e plateali, mai così al centro della scena, mai al secondo episodio.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Se mai aprite una recensione per schiarirvi le idee, per avere delle delucidazioni, per conoscere ferme opinioni altrui, forse questa volta siete stati sfortunati. Più che mai, in questo caso, Game Of Thrones ci lascia in una spirale di incertezza sul suo futuro. L’impassibilità della narrativa lineare di un tempo sembra solo essere un lontano ricordo. L’impressione è quella di trovarci in una terra inesplorata.
Perché, però, tutto questo ci fa venire voglia di ringraziare così tanto questo episodio?
The Red Woman 6×01 | 7.94 milioni – 4.0 rating |
Home 6×02 | 7.29 milioni – 3.7 rating |
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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.